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Penna e calamaio

Fiaba di Hans Christian Andersen

C’era una volta un Calamaio sopra un tavolino, nella cameretta d’un Poeta; e qualcuno, guardandolo, disse un giorno: «Fa meraviglia pensare a tutto quello che può venir fuori da un calamaio. Chi sa che ne uscirà ora? Davvero ch’è meraviglioso!»

«Sì, certo!» disse il Calamaio: «Pare impossibile: lo dico sempre anch’io!» — e si rivolse alla Penna ed agli altri oggetti che stavano sopra al tavolino, abbastanza vicini per udirlo: «È meraviglioso pensare che infinità di cose vengano fuori da me: pare proprio incredibile. E dire ch’io stesso non so che cosa uscirà tra poco, quando l’uomo ricomincerà ad attingere da me! Una mia gocciola sola basta per mezza pagina di carta: e che cosa non può stare in mezza pagina? Sono davvero straordinario! Da me procedono tutte le opere del Poeta, tutte quelle creature vive, che la gente si figura di avere incontrate per davvero, tutti i più profondi sentimenti, e tutto l’umorismo, e tutte le smaglianti pitture della natura. Io stesso non so capire come sia, perchè di queste cose non m’intendo punto; ma tutto vive dentro di me. Da me uscirono ed escono in frotta le vaghe fanciulle, i prodi cavalieri sui focosi destrieri, e tutte le sirenette e gli elfi e gli anitroccoli e gli usignuoli e le rose, e non so che altro ancora. E pure, vi assicuro, io non ne so nulla e nemmeno ci penso.»

«Qui, tu l’hai detta giusta!»    esclamò la Penna: «Tu non pensi niente affatto; perchè se tu pensassi, comprenderesti che non fai altro se non fornirmi la fluidità. Tu fornisci il mezzo perchè io possa mostrare sulla carta quello che ho dentro, e quello che voglio mettere in luce: ma la penna scrive. Di questo nessun uomo dubita; e in verità che molti uomini non hanno più intelletto di poesia d’un vecchio calamaio!»

«Tu hai poca esperienza ancora!» — rispose il Calamaio: «Sei in servizio appena da una settimana, e sei già logora. T’immagini forse d’essere tu il Poeta? Non sei che una serva; e prima che venissi tu, ne ho conosciute molte della tua condizione, alcune della famiglia delle oche ed altre venute da una fabbrica d’Inghilterra. Conosco la penna d’oca e quella d’acciaio. Ne ho avute molte al mio servizio e molte altre ancora ne avrò, quando verrà l’uomo che si affatica tanto per me e scrive tutto quello che da me deriva. Mi basterebbe sapere che cosa trarrà fuori da me la prossima volta!»

«Pentolo da inchiostro!» — schizzò la Penna stizzita.

La sera, tardi, il Poeta ritornò a casa. Era stato ad un concerto, dove aveva udito un violinista famoso, ed era entusiasta di quella mirabile esecuzione. L’artista aveva cavato una meravigliosa ricchezza di suoni dallo strumento: tal volta, sembravano gocciole d’acqua cadente, perle sgranate in bacili d’argento, o canti d’augelli gorgheggianti in coro; tal altra, in vece, i suoni parevano gonfiarsi come la raffica del vento tra gli abeti. Al Poeta sembrava di sentire il pianto del suo proprio cuore, ma un pianto melodioso, come un canto dolcissimo di donna. Non solo le corde, ma le fibre tutte dello strumento sembravano animarsi. Ah, che stupenda esecuzione! E sebbene il pezzo fosse difficilissimo, l’arco scivolava naturalmente, quasi per gioco, sulle corde; si sarebbe detto che chiunque potesse fare altrettanto. Il violino sembrava sonare da sè, e spontaneamente pareva muoversi l’arco: pareva facessero tutto tra loro due; e l’uditorio dimenticava il maestro che li guidava, infondendo loro anima e spirito. Il maestro era quasi dimenticato; ma egli, il Poeta, lo ricordò e ne scrisse il nome, e diede forma ai pensieri che gli aveva inspirati.

«Che sciocchi sarebbero violino e archetto, se menassero vanto dell’opera loro! E pure noi, uomini, commettiamo sovente simile follia: poeta, artista, scienziato, generale — tutti noi facciamo altrettanto, vantando l’opera nostra, mentre non siamo se non gli strumenti di cui l’Onnipotente si serve. A Lui solo sia gloria! Noi di nulla possiamo andar superbi!»

Sì, questo scrisse il Poeta; lo scrisse in forma di parabola, ed intitolò la parabola: «Il Maestro e gli Strumenti.»

«Questa viene a te, caro!» — disse la Penna al Calamaio, quando rimasero soli di nuovo. «Gli hai sentito legger forte quello che io ho scritto?»

«Sì, quello che io t’ho dato da scrivere!» — ribattè il Calamaio: «Una buona allusione per te, per la tua presunzione. Che tu non abbia nemmeno a capire che ti si mette in canzonella! E pure questa frecciata mi è proprio venuta su dal fondo del cuore. Almeno delle mie satire, saprò, spero, dove vanno a parare.»

«Pozzo nero!» — gridò la Penna.

«Scopa da scrivere!» — rimbeccò il Calamaio.

Tutti e due erano convinti d’aver risposto bene all’insulto; e quella d’aver risposto a dovere è sempre una convinzione piacevole, sulla quale si può dormir tranquilli. Infatti, tutti e due si addormentarono: ma il Poeta non dormiva. I pensieri sorgevano dall’intimo suo, come le note del violino, cadevano come perle, urlavano come raffiche di vento a traverso la foresta: in quei pensieri egli chiariva a se stesso il proprio cuore, e vi coglieva un raggio dell’Eterno Maestro.

A Lui solo tutta la gloria!

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