Fiaba di Luigi Capuana
C’era una volta un Re che aveva due figli, uno buono e l’altro cattivo. Quello buono era il Reuccio, e alla morte del padre doveva essere Re.
La cosa non garbava al cattivo, e pensò di disfarsi del fratello per diventare Re lui. Un giorno gli disse:
– Andiamo a caccia?
E andarono. Giunti in mezzo a un bosco, lontani dalle persone del séguito, cava fuori la spada e dà addosso al fratello, che non si aspettava quel tradimento. Credette di averlo ucciso. Coprì con erbacce e rami di albero il corpo insanguinato, e tornò addietro.
A palazzo, il Re domandò:
– E tuo fratello?
– Maestà, che disgrazia! Fu sbranato dalle fiere!
Il povero padre ne fece un gran pianto. Dal dolore si ammalò, e dopo pochi giorni morì.
Il Reuccio, sotto le erbe e i rami, rinvenne; e cominciò a lamentarsi, a chiamare soccorso:
– Aiuto, buoni cristiani, aiuto!
Era già buio. Udendo rumore lì accosto, il poverino gridò più forte che poté:
– Aiuto, buoni cristiani, aiuto!
Sentì frugare tra l’erbe e i rami; poi, due manacce con tanto di ugne lo ghermiscono, lo levano di peso quasi fosse un fuscellino, e una lingua ruvida come una raspa gli lecca il sangue addosso:
– Oh che buon sapore! Oh che buon sapore!
Il Reuccio, a quel vocione cupo cupo, rabbrividì:
– Povero a me! Son capitato alle mani dell’Orco!
L’Orco, era proprio lui! Se lo mise sotto braccio come un fardelletto, e si avviò per tornare alla sua grotta. Di tratto in tratto, si fermava, leccava il sangue delle ferite:
– Oh che buon sapore! Oh che buon sapore!
Alto, grosso, quasi un gigante, faceva certe sgambate così larghe e leste, che non lo avrebbe raggiunto neppure il vento. In pochi minuti fu alla porta della grotta e picchiò:
– Apri, apri, figliuola; il babbo ti porta roba buona!
Il Reuccio si era svenuto di nuovo e pareva proprio morto. La figlia dell’Orco, vedendo quel bel giovane tutto insanguinato, n’ebbe pietà:
– Che roba buona dite mai! È morto; non vedete? Lo butto nel carnaio.
L’Orco leccò un’ultima volta il sangue, e disse:
– Hai ragione. Buttalo nel carnaio. Io torno fuori.
– Buon’andata e buon ritorno. Non venite prima di giorno.
Appena l’Orco fu partito, la figlia corse a un armadio, prese il barattolo dov’era l’unguento che sana le ferite, e ne unse quelle del Reuccio.
Il Reuccio aprì gli occhi, quasi si svegliasse da una gran dormita.
– Chi siete, bella figliuola?
– Sono la figlia dell’Orco; non abbiate paura. Voi chi siete?
– Il Reuccio.
E le raccontò il tradimento del fratello.
– Lasciatemi andare; mio padre dev’essere in pena a quest’ora.
– C’è monti, valli e foreste; non trovereste la via. Mio padre v’incontrerebbe e ne farebbe due bocconi. Bisogna avere il suo anello per non smarrirsi; ma egli lo porta sempre in dito.
– Glielo leverò, mentre dorme, se voi mi aiutate.
– E dopo?… Mi sbranerebbe.
– Vi porto via con me. Ci sposeremo.
S’intese il grido dell’Orco, che tornava inferocito per non aver fatto preda alla caccia:
– Uhii! Uhii!
– Ecco mio padre. Entrate in quella grotta. C’è da mangiare, da bere e un buon pagliericcio per dormire. Non fiatate fino a questa sera; se no, mio padre fa due bocconi di voi!
L’Orco, appena entrato, cominciò a fiutare attorno:
– Uh! Uh! Che odore di carne cristiana! Uh! Uh!
– È la fantasia che ve lo fa sentire. Siete stanco; desinate e andate subito a letto.
L’Orco, brontolando, si spolpò mezzo bue arrosto, e si mise a letto:
– Grattami la testa, figliuola.
Non poteva addormentarsi, se sua figlia non gli grattava la testa. Con una mano ella grattava, e con l’altra tentava di cavargli l’anello dal dito.
– Che tenti, figliolaccia? – urlò l’Orco mezz’addormentato.
La figlia, impaurita, ritirò la mano e lasciò stare.
Verso sera, l’Orco si preparava a uscire per la sua caccia.
– Uh! Uh! Che odore di carne cristiana! Uh! Uh!
Fiutava attorno, sgranando gli occhi, con l’acquolina in bocca.
– È la fantasia che ve lo fa sentire. Buona andata e buon ritorno; non venite prima di giorno.
L’Orco, brontolando, tirò la porta dietro a sé.
– Uhii! Uhii!
Si sentiva da lontano un miglio.
La figlia dell’Orco chiamò fuori il Reuccio.
– Ho tentato di cavargli l’anello; non mi è riuscito. Ritenterò domani.
– Fatemi vedere tutta la casa, intanto che vostro padre non c’è.
– Giuratemi prima che voi mi sposerete, se andremo insieme via di qui.
– Ve lo giuro.
La figlia dell’Orco aperse un uscio, e il Reuccio rimase a bocca aperta vedendo una stanza tutta tempestata di oro e diamanti, con mobili di marmo, di argento, di legni preziosi. Per terra però qua e là ossa spolpate, macchiate di sangue.
– Che ossa son queste?
– Non ci badate
E aperse un altr’uscio. Il Reuccio rimase a bocca aperta. Pareti di lamine di argento lucide come specchi; cornici d’oro e di perle; pavimento di marmi rarissimi; e mobili fastosi, cortinaggi di stoffe non mai viste, con ricami d’oro e frange d’oro… Una magnificenza. Per terra però qua e là ossa spolpate, macchiate di sangue.
– Che ossa son queste?
– Non ci badate,
Il Reuccio capì che erano ossa umane; tutte quelle povere creature se le era divorate l’Orco. E si sentì correre brividi da capo ai piedi, pensando che forse anche colei ne aveva mangiate la sua parte.
– E lì dentro che c’è?
Accennava all’uscio tutto d’acciaio, con congegni complicati e due mostri di bronzo; uno a destra, l’altro a sinistra, che mettevano paura.
– Lì dentro c’è il tesoro. Ma non vi si entra; bisogna avere in mano l’anello, per non esser mangiato vivo da questi mostri.
S’intese il grido dell’Orco che ritornava dalla caccia:
– Uhii! Uhii!
– Lesto, nella vostra grotta, e non fiatate fino a sera; se no, mio padre fa due bocconi di voi.
Il Reuccio ebbe appena il tempo di nascondersi, che l’Orco picchiava alla porta:
– Apri, apri, figliuola! Il babbo ti porta roba buona.
Il Reuccio di là sentiva urli e pianti, e ganasce che maciullavano; e poi soltanto quel maciullare di ganasce.
La figlia diceva al padre:
– Siete stanco; andate a letto.
L’Orco si spogliava:
– Grattami la testa, figliuola.
– Ora gli leva l’anello – pensò il Reuccio.
Infatti, la sera dopo, appena l’Orco fu andato via per la caccia, la ragazza chiamò:
– Reuccio, Reuccio, ecco l’anello! Mio padre, poverino, ora si sperderà in mezzo al bosco. Per amor vostro, io l’ho tradito.
Andarono nella stanza del tesoro, presero oro e diamanti in quantità, e uscirono fuori. L’anello lo teneva in dito la figlia dell’Orco.
Passando pel bosco, sentivano da lontano:
– Uhii! Uhii!
– È mio padre che non trova la via. L’ho tradito per amor vostro, povero babbo!
Il Reuccio la guardò in faccia e vide che aveva le labbra sporche di sangue.
– Che hai mangiato con tuo padre?
– Agnellini, caprettini che parevano bambini. Non mi son pulita la bocca.
Nella prima città dove arrivarono, il Reuccio mantenne la sua parola e sposò la figlia dell’Orco. Lì seppe che suo padre era morto, che il fratello traditore era già Re. Ma che poteva farci? E rimase in quella città, godendosi i tesori portati via all’Orco.
Sua moglie a tavola non mangiava, o assaggiava appena le pietanze.
– Perché non mangi?
– Non ho appetito.
O che campi d’aria?
– Non ci badare.
Una notte, il Reuccio si sveglia e non trova sua moglie nel letto. La cerca per tutta la casa, e non la trova neppure. Era in gran pensiero. Verso l’alba, eccola che rientra.
– Dove sei stata?
– A prendere un po’ d’aria.
La guardò in faccia; aveva le labbra sporche di sangue:
– Che hai mangiato?
– Agnellini, caprettini che parevano bambini. Non mi son pulita la bocca.
Per quella volta non ci fece caso. Intanto sua moglie lo aizzava sempre contro il fratello traditore.
– Se tu fossi Re, io sarei Regina!
– Sei meglio che Regina. Non ti manca nulla.
– Se tu fossi Re, io sarei Regina! Dovresti andare a ammazzare tuo fratello com’egli tentò di ammazzar te.
– E se non riesco?
– Con l’anello di mio padre si riesce a tutto! Dovresti vendicarti. Se tu fossi Re, io sarei Regina!
Picchia oggi, picchiadomani, il Reuccio cominciò a pensare sul serio alla vendetta contro il fratello. Lo tratteneva soltanto l’amore dei figliuoli. Ne aveva già cinque e un altro era per la via. Se lui moriva in quell’impresa, come sarebbero rimasti quei poverini? Ma sua moglie ripicchiava:
– Se tu fossi Re, io sarei Regina!
Si sgravò del sesto figliuolo. Ora erano tre maschi e tre femmine.
Una notte il Reuccio si sveglia e non trova sua moglie nel letto. La cerca per tutta la casa, e non la trova neppure. Era in gran pensiero. Verso l’alba, eccola che rientra.
– Dove sei stata?
– A prendere un po’ d’aria.
La guardò in faccia; aveva le labbra sporche di sangue:
– Che hai mangiato?
– Agnellini, caprettini che parevano bambini. Non mi son pulita la bocca.
Questa volta però il Reuccio entrò in sospetto e inorridì pensando che pasto aveva forse fatto sua moglie.
– Non è figlia d’Orco per niente!
E l’odio contro il fratello e il desiderio di vendetta gli riavvampò in cuore.
– Se non fosse stato per il suo tradimento, non avrei sposato la figlia d’un Orco.
L’odiava di più per questo. Il sangue che lordava le labbra di sua moglie doveva essere di creature umane. Oh, che orrore!
Un giorno disse a sua moglie:
– Porto i bambini a spasso.
Prese in collo l’ultimo, che ancora non si era staccato ed era spoppato di fresco, e uscì fuori città. Cammina, cammina, la notte lo sorprese in una pianura deserta. Non c’era casolare dove rifugiarsi; non si vedeva anima viva.
– Ah, fratello scellerato, dove mi trovo per te! Voglio ammazzarti!
Coricò su la terra nuda i bambini che già cascavano dal sonno, e si sedette in un canto per vegliarli.
Tutt’a un tratto vede davanti a sé due occhi di bragia, e una forma nera di animalaccio che si accostava adagino adagino.
Gli si agghiacciò il sangue. Non aveva la forza di cavar la spada e difendersi. E sentiva brontolare:
– Ah! Che buon odore di carne piccina! Che buon odore!
Quella voce non gli giungeva nuova, ma non gli riusciva di riconoscerla. L’amore dei figli però gl’infuse coraggio. Cavò la spada e si slanciò contro l’animalaccio dagli occhi di bragia, che già aveva addentato i bambini.
– Ahi! Ahi! Muoio! Muoio!
Era sua moglie, la figlia dell’Orco; stava per divorarsi le proprie creature. Non era figlia d’Orco per niente.
I bambini erano tutti lacerati, insanguinati, e il povero Reuccio non sapeva come medicarli. Il giorno era alto, e per la campagna deserta non si scorgeva anima viva.
Ed egli piangeva strappandosi i capelli, con quell’orrido spettacolo sotto gli occhi: la moglie morta da un canto e i bambini lacerati, insanguinati e morenti dall’altro.
– Fratello scellerato! Senza il tuo tradimento, non sarei a questo punto!
– Che hai? Perché piangi?
Si voltò e si vide dinanzi una bellissima donna tutta vestita di bianco con in mano una verga d’oro.
– Ah, buona signora, aiutatemi voi! I miei bambini!… I miei bambini!
– Posso aiutarti, ma a un patto.
– A qualunque patto, buona signora!
– Ascolta bene: io so tutto. Il tradimento di tuo fratello, l’Orco, la tua fuga con la figlia di lui, il tuo matrimonio, tutto. Se vuoi però che io ti aiuti, devi perdonare a tuo fratello.
– A quell’infame? No, mai!
La bellissima signora, turbata in viso, gli voltò le spalle e stava per andarsene.
– Sì, sì, gli perdono! – gridò il Reuccio. – Pei miei figliuoli!
La signora gli si accostò sorridente e gli disse:
– Ascolta bene. Dei tuoi figliuoli, dopo parecchi anni, uno solo sopravviverà; questo, il minore. E sai perché? Perché egli soltanto non è nutrito di carne umana. Tua moglie, per virtù dell’anello, ti assopiva profondamente e usciva la notte a caccia di bambini: non era figlia d’Orco per niente. Gli altri cinque, ove campassero, diventerebbero Orchi anche loro!
Il Reuccio piangeva.
– Se tu perdoni al fratello, il tuo figliolino sarà Re.
– Sì, sì, gli perdono! Gli perdono di tutto cuore!
– Ora, guarda!
Stese la verga d’oro e cominciò a toccare ad uno ad uno i bambini; e di mano in mano che li andava toccando, accadeva un portento. Questi diventava un martello, quegli uno scalpello, chi una tenaglia, chi una pialla, chi una sega. Toccato il minore, diventò un succhiello.
Il Reuccio allibì: si sentì drizzare i capelli in testa.
La signora gli fece un cenno con la mano:
– Non disperarti: non è niente. Tu sarai falegname e questi i tuoi arnesi. Di giorno, ti serviranno per il tuo mestiere; la notte, tòccali con l’anello dell’Orco; ridiventeranno bambini.
– E voi chi siete?
– Sono una Fata.
Il Reuccio si rincorò:
– Fata, buona, Fata, suggeritemi voi che debbo fare.
– Raccogli questi arnesi e va’ nella città dov’è il Re tuo fratello. Prenderai a pigione una botteguccia, e lavorerai di falegname. La colla e i chiodi devono comprarli gli avventori. I chiodi che avanzeranno, li renderai; la colla, no; mettila da parte. Sarà buona da mangiare; vedrai.
E gli spiegò tutto quel che doveva accadere.
Il Reuccio raccolse gli arnesi:
I miei figli ora si chiamano: Piallina, Scalpellino, Tanaglina, Martellino, Seghina e Succhiellino!
Piangeva e rideva consolato.
– E il cadavere di tua moglie? Lo lasci così, in preda alle bestie feroci e agli uccelli di rapina?
– È giusto! Poveretta, Orco il padre, Orca lei: non ci aveva colpa.
Le tolse dal dito l’anello, scavò una fossa e la seppellì.
– Che nome prenderò, buona Fata?
– Il nome te lo appiccicherà la gente; ti chiameranno: Mastro Acconcia-e-guasta. Parrai un vecchio; ma parrai soltanto.
– Grazie, grazie, buona Fata!
Guardò attorno, vicino, lontano; la Fata era sparita.
Il resto, bambini miei, già lo sapete. E la fiaba della Figlia dell’Orco è bell’e finita: