Fiaba di Luigi Capuana
C’era una volta una povera donna a cui nacque un bambino così piccinino che, invece di fasciarlo, dové tenerlo avvolto nella bambagia. Bello, ben proporzionato, sembrava una figurina di cera uscita dalle mani capricciose di un figurinaio. Non sapendo che nome dargli, ella lo chiamò Radichetta.
Aveva già sei mesi e non era più alto d’una spanna. Mentre ella filava lo teneva in una tasca del grembiule, e, spesso, Radichetta la faceva arrabbiare, afferrando il filo o fermando il fuso col pericolo di farsi storpiare una manina.
La poveretta, quando era sola in casa, e il bambino dormiva in una piccola cesta ridotta a culla, si struggeva in lacrime pensando alla sorte della sua creatura.
Come avrebbe potuto guadagnarsi il pane? Finché campava lei, Radichetta non avrebbe sofferto la fame; quel po’ che guadagnava sarebbe bastato per tutti e due. Ma dopo? E se lei moriva, com’era morto il padre, che lo aveva lasciato orfano a tre mesi?
Le vicine le dicevano:
– Non vi angustiate; è anzi una fortuna che sia un aborto così strano. Potrete condurlo attorno: chi vorrà vederlo dovrà pagare un soldo, due soldi, secondo. Vi arricchirete.
Il consiglio non era cattivo, ma la povera madre non sapeva indursi a metterlo in atto: le sembrava di avvilire il bambino, menandolo attorno per dare spettacolo della sua disgrazia.
Aveva sentito dire che, a ogni luna nuova, si radunavano nel vicino bosco le Fate o le Nonne, non sapeva bene. Le Nonne, come le chiamavano, s’introducevano anche nelle case entrando pel buco della serratura, e guarivano i bambini malati. Qualche volta però, per gastigare i genitori, li storpiavano. Ma lei non poteva aver timore che le maltrattassero il figliolino; non aveva fatto male a nessuno, e non aveva mai parlato male delle Nonne.
Aspettò dunque qualche mese, lusingandosi che, una notte o l’altra, esse venissero a visitarla e a far crescere di statura il bambino. E ogni notte, prima di addormentarsi, invocava:
– Nonne, Nonne buone, venite! Il mio bambino ha bisogno del vostro aiuto.
Vedendo,che le Nonne non venivano, quantunque pregate e ripregate, la poverina si decise di recarsi col figlio nel bosco vicino, la prima notte di luna nuova.
Si avviò, verso il tramonto, portando il bambino addormentato nella tasca del grembiule; ed era già notte quando arrivò là dove il bosco s’infittiva di più. Procedeva tentoni, urtando spesso in un tronco d’albero, impigliandosi in una siepe, col cuore che le tremava ad ogni rumore, ad ogni grido di uccello notturno, a ogni sguisciare di animali impauriti dalla sua presenza. L’amore del figliolino le infondeva coraggio. E così, prima della mezzanotte, arrivò nella radura dove, secondo la gente, venivano le Fate a ballare e a divertirsi. In alto, fra i rami degli alberi, s’intravedeva un filo di luna.
Cavò di tasca il bambino ancora addormentato, lo posò su l’erba nel mezzo della radura, e si nascose dietro una siepe per veder quel che sarebbe accaduto.
Ed ecco, alla mezzanotte in punto, un lumicino tra gli alberi, e poi, di qua, di là, quasi sbucassero dal tronchi, le Fate, vestite di abiti fosforescenti, coronate di fiori freschi, che si abbandonano a un ballo vorticoso, tenendosi per mano, e così agili, così leggère, che pareva non toccassero il suolo coi piedi calzati di sandali di oro.
La povera madre tratteneva il respiro, atterrita che, nella furia del ballo, le Fate calpestassero il bambino, dormente su l’erba. Esse intanto continuavano più allegramente e più furiosamente la ronda, senza accorgersi di lui. Tutt’a un tratto, si fermarono, e stettero in orecchio:
– Chi ci vede e chi ci sente,
Sorda e cèca immantinente!
Chi ci sente e chi ci vede,
Cionca a un braccio e zoppa a un piede!
– Ah! Fate, Fate belle, sono una povera madre!
Al grido della donna le Fate disparvero. Soltanto una indugiò alquanto avendo urtato con un piede il bambino che si destò e si mise a piangere.
La Fata però, da bella e giovane, si era trasformata in vecchia grinzosa e canuta che si reggeva su un bastone. Si chinò, prese in mano il bambino e disse:
– Oh che carne tenerina! Ne faccio due bocconi!
– Per carità, buona Fata, risparmiate la mia creatura! Se avete fame, qui c’è la mia carne; se avete sete, qui c’è il mio sangue.
La donna, saltata fuori dal nascondiglio, si era buttata al piedi della Fata e tentava di levarle di mano il bambino.
– Eccomi pronta, buona Fata.
E si denudava le braccia, porgendole.
– È stato per provarti; le Fate non fanno male. Che cosa vorresti pel tuo bambino?
– Che abbia la crescenza uguale a quella degli altri.
– Avrà qualcosa di meglio. Crescerà di altre due spanne non più. In certi momenti di gran bisogno però potrà allungare la sua statura quanto vorrà, fino a diventare un gigante. Basterà che si metta in bocca il pollice della mano destra e che vi soffi forte come in un cannello. Mezz’ora dopo sgonfierà e tornerà qual era prima.
– Grazie, buona Fata!
– Badi, però: di questo privilegio non deve servirsi per far del male agli altri, o per qualche cattivo scopo. Non solamente perderà per sempre quella virtù, ma sarà gastigato.
– In che modo, buona Fata? È bene saperlo per avvertirlo.
– Gli spunteranno due gobbe, una davanti e l’altra di dietro.
– Ah! povero figlio mio! Ma non avverrà, buona Fata!
– Ed ecco come dovrà fare.
La Fata prese la manina destra di Radichetta, si mise tra le labbra il pollice e cominciò a soffiare.
Quasi avesse gonfiato un otre, Radichetta erebbe di due spanne, bello, ben proporzionato; sembrava un altro. Sua madre piangeva dalla gioia; lo riconosceva a stento.
– E non dire a nessuno di quel che hai visto e udito. Il bambino non deve saper niente prima di aver compiuto quindici anni.
– Non saprà niente, buona Fata.
La povera madre voleva baciarle i piedi per ringraziarla; ma la Fata, diventata di nuovo bella, fosforescente, coronata di fiori, le spariva a un tratto davanti.
La donna, col bambino tra le braccia, non si saziava di baciarlo e ribaciarlo.
– Figliolino del mio cuore, è stata la tua fortuna!
E si sedé su l’erba, aspettando che spuntasse l’alba, per uscire dal bosco.
Si era immaginato che il bambino sarebbe restato di tre spanne, come la Fata lo aveva fatto crescere soffiando il pollice della mano destra quasi fosse stato un cavallino. Invece, a poco a poco, se lo senti sgonfiare tra le braccia, e prima che l’alba spuntasse, Radichetta era già tornato piccinino una spanna come prima.
Per un istante, ella credé che la Fata si fosse fatta beffe di lei.
Si era messa in bocca il pollice della mano destra del bambino e aveva tentato di rigonfiarlo, ma non era riuscita. Si riprese però sùbito, pensando che le Fate non sono cattive, e tornò a casa con la lieta speranza che Radichetta, a quindici anni, in momenti di gran bisogno, avrebbe potuto far crescere la sua statura fino a divenire un gigante,
Intanto tornò a filare, tenendo il figliolino nella tasca del grembiule.
Egli era così vispo, così allegro che formava lo spasso delle vicine e dei loro ragazzi.
– Radichetta, vuoi una chicca?
– Si, una oggi, e l’altra domani.
Rispondeva con una vocina sottile sottile, che si sentiva appena.
– Allora sono due! Sei ghiotto, Radichetta!
– Dàmmene mezza, ma sùbito, via!
– Vieni a prendertela; salta fuori dalla tasca.
E Radichetta, lesto lesto, scavalcava l’orlo della tasca del grembiule della mamma, si lasciava scivolare lungo la sua sottana e correva dietro a colui che gli aveva mostrato la chicca e faceva finta di non volergliela dare.
– Bravo, Radichetta! Viva Radichetta! Ah! Ah!
Era uno spettacolo vedergli muovere rapidamente le gambine; le comari e gli altri ragazzi ridevano, battevano le mani, fino a che quell’altro non si lasciava afferrare, e non gli dava la chicca.
– Hai visto? – esclamava Radichetta trionfante, quasi gliela avesse tolta a forza.
E arrampicandosi di nuovo alle falde della gonna della sua mamma, rientrava nella tasca del grembiule.
La povera donna doveva tenerlo là, per evitare che i polli non lo beccassero; era così: piccinino, che non ne avevano paura, e lui non badava a pericoli.
Le poche volte che ella lo aveva lasciato libero per la via, se l’era visto sparire davanti. Radichetta correva di qua, correva di là, si rimpiattava dovunque, e lei dall’ansietà che potesse accadergli qualche disgrazia, non aveva avuto pace, finché non lo aveva rintracciato e rimesso nella tasca.
Gli anni passavano; Radichetta era già cresciuto di una spanna e mezzo, e aveva dodici anni.
Sua madre non lo teneva più nella tasca del grembiule, ma lo voleva sempre accanto a sé o sotto i suoi occhi. Era troppo vivace e anche un po’ manesco, quantunque uno schiaffo o un pugno di lui sembrassero piuttosto una carezza. Non era lo stesso per Radichetta. Uno spintone, un pugno, uno schiaffo degli altri ragazzi con cui attaccava facilmente lite facendo il chiasso, lo mandavano ruzzoloni per terra, o gli lasciavano i lividi sul viso. La povera mamma lo ammoniva, gli dava sempre torto, quantunque spesso avesse ragione. E minacciava i ragazzi:
– Vedrete, un giorno o l’altro, come vi concerà Radichetta!
– Per ora le ha avute; se le tenga!
Radichetta, dalla stizza, si mordeva le manine.
– Mamma, perché hai detto: Vedrete, un giorno o l’altro, come vi concerà Radichetta?
– Perché sarà cosi; lo saprai a quindici anni.
– E quanto ci vorrà ancora?
– Un altr’anno, figliolo mio.
I ragazzi avevano preso a beffarlo.
Quando ci concerai, Radichetta?
– Come ci concerai, Radichetta?
– Vi concerò bene, non dubitate!
– Gridalo forte, fàtti sentire.
E Radichetta, con quella vocina sottile sottile che si sentiva appena, si sforzava a gridare:
– Vi concerò bene, non dubitate!
– Intanto ti abbiamo conciato noi, Radichetta!
La mattina in cui egli compiva i quindici anni, la madre lo prese su le ginocchia (era già alto tre spanne) e gli disse:
– Sta’ attento, figliolo mio.
Gli raccontò punto per punto quel che aveva visto la notte di luna nuova passata nel bosco con lui addormentato e messo a giacere su l’erba in mezzo alla radura.
– E poi? – la interrompeva Radichetta.
– E poi le Fate si accorsero della mia presenza e mi avrebbero buttato addosso un’imprecazione tremenda:
Chi ci vede e chi ci sente
Sorda e cèca immantinente!
Chi ci sente e chi ci vede
Cionca a un braccio e zoppa a un piede!
Ma io gridai: Fate belle, sono una povera madre! Sparirono, e fui salva.
– E poi?
La madre si affrettò a raccontare il resto fino alla raccomandazione della Fata:
– Badi, non si serva di questo privilegio per far male agli altri o per qualche scopo cattivo.
– così non potrò conciare i ragazzi che mi hanno picchiato! – esclamò Radichetta piagnucolando.
– È meglio far bene per male, figliolo mio!
Radichetta non la intendeva a questo modo, tanto che rispose:
– Allora non soffierò mai nel pollice. Che me ne faccio di questo bel regalo, se non posso rendere male per male? E corro il pericolo di buscarmi due gobbe, una davanti e l’altra di dietro!
– Intanto prova, figliolo mio!
– Niente; non vo’ neppur provare!
E non ci fu verso d’indurlo a mettersi in bocca il pollice della mano destra per accertarsi che la Fata non li avesse ingannati.
Ma ecco, una notte, urli e pianti nella via. Era una nottataccia; pioveva a dirotto e tirava un vento così furioso, che pareva volesse sradicare le case.
– Che cosa avviene, mamma?
– Chi lo sa? Apro la finestra e sto ad ascoltare.
E, nel buio, si sentiva urlare: – Aiuto! Aiuto! Ladri! Ci ammazzano!
Radichetta saltò giù dal lettino, che aveva per materassa due guanciali, e si vestì in fretta.
– Dove vuoi andare, figlio mio?
– Vo a vedere questi ladri!
Si mise in bocca il pollice della mano destra, e cominciò a soffiare. In meno di un minuto era diventato un omaccione.
– Costoro, sì, vo’ conciarli bene!
Sua madre non poté trattenerlo. Si udivano sempre più alte le grida: – Aiuto! Aiuto! Ladri! Ci ammazzano!…
Alla cantonata Radichetta si fermò; riprese a soffiare nel pollice; in meno di un minuto era diventato un gigante. E con due sgambate si trovava davanti alla casa d’onde uscivano quelle grida: – Aiuto! Ladri! Ci ammazzano!
Trascorsi pochi istanti, non si udì più niente.
E la mattina dopo furono visti sul tetto di quella casa quattro ladri legati come tanti salami, pallidi, atterriti, non tanto del trovarsi legati a quel modo, ma della terribile apparizione del gigante. Egli, infatti, senza scomodarsi, aveva sfondato con un pugno una finestra, aveva ficcato dentro la stanza un braccio enorme e una manona con cui li aveva afferrati tutti e quattro e stretti nel pugno come niente; all’ultimo, legàtili tutti e quattro insieme, e tiràtili fuori, li aveva deposti sul tetto, sollevandoli come fuscelli; ed era sparito nel buio.
Radichetta, compiuta la bella impresa, tornato zitto zitto a casa, non era potuto rientrare, ed era stato costretto a passare mezz’ora davanti all’uscio, aspettando di sgonfiarsi.
Fin sua madre, che lo attendeva alla finestra, aveva avuto paura di quel gigante che sorpassava con la testa la più alta casa del vicinato.
– Che cosa hai fatto, figliolo mio?
– Lasciami sgonfiare; ti racconterò ogni cosa dopo.
Passata mezz’ora, Radichetta era ridiventato un omino alto tre spanne.
– Ti hanno riconosciuto, figlio mio?
– Non mi ha riconosciuto nessuno; e non voglio che si sappia che ho questa virtù. Se non ero io, quella famiglia era scannata e derubata.
– Sei contento di aver compiuto un’opera buona?
– Contentissimo, mamma!
E mamma e figliolo si rimisero a letto, e dormirono tranquillamente fino a tardi.
Non si parlava d’altro nel vicinato.
– Come? Non avete sentito nulla?
– Nulla. Che cos’è accaduto?
Ognuno faceva un racconto a modo suo. I ladri stavano per svaligiare una casa. Passava per caso da quelle parti l’Orco e accorse. I ladri eran dieci. Sei l’Orco se li maciullò in un batter d’occhio; e stava per spolparsi gli altri quattro, quando sonò la mezzanotte. Gli Orchi alla mezzanotte devono tornare alle loro tane; e così li lasciò sul tetto, legati perché non fuggissero.
– Siete sicuro che è stato proprio l’Orco?
– Chi volete che sia stato? Era un gigante, più alto di un campanile.
Una delle vicine, per chiasso, disse:
– Sarà stato Radichetta. È vero che sei stato là?
– Io, proprio io!
Tutti si misero a ridere. Chi poteva immaginare che Radichetta dicesse la verità?
E per prenderlo in giro, i ragazzi inventarono una canzonetta e gliela cantavano in coro:
– Radichetta ha il muso sporco,
Mangia gente come l’Orco.
Se gli danno una polpetta,
Metà ne mangia, metà ne getta.
Ora dice: Sono l’Orco!
Radichetta, muso sporco.
Da principio, egli li lasciò dire. Rideva in cuor suo, pensando che, se gliene fosse venuta la fantasia, data una soffiatina al pollice, sarebbe stato subito in caso di sbatacchiarli nel muro come tanti ranocchi.
Sua madre si raccomandava:
– Non te ne curare, figliolo mio! Smetteranno, vedrai!
Invece, vedendogliela prendere in santa pace, quasi avesse paura di loro, quei birbi non smettevano punto, anzi rincaravano la dose. La sera attendevano che mamma e figliolo fossero andati a letto, e si radunavano dietro l’uscio sotto la finestra della casetta, per far loro la serenata:
– Radichetta ha il muso sporco,
Mangia gente come l’Orco.
La povera donna si affacciava alla finestra:
– Volete finirla, ragazzacci?
Radichetta, coricato nel suo lettino, con due guanciali per materassa, ripeteva sottovoce:
– Se scendo giù! Se scendo giù!
E i ragazzacci:
– Se gli danno una polpetta,
Metà ne mangia, metà ne getta!
– Volete finirla, ragazzacci? O vi butto un secchio d’acqua!
Alla minaccia, i discoli si allontanavano, e facendo capolino dalla cantonata, riprendevano più forte:
– Ora dice: Sono l’Orco!
Radichetta, muso sporco!
E scappavano via. Ogni due o tre sere, daccapo.
Radichetta non ne poteva più!
Una sera che il cielo era coperto di nuvole e nel vicolo faceva un gran buio, che cosa pensò di fare Radichetta?
Pensò di rimpiattarsi dietro l’uscio della casetta vicina, e di attendere che i ragazzacci venissero per la solita serenata.
– Per carità, figliolo mio, non far male a quegli screanzati. Ricordati! Ricordati!
Intendeva dire: ricordati delle due gobbe!
– Mamma, lasciami fare. Vedrai che non ricominceranno più.
Cosi piccinino com’era e accoccolato dietro l’uscio, col buio della sera, i ragazzacci, venuti più numerosi delle altre volte, non potevano scorgerlo affatto. E, al segnale di uno di loro che faceva da capo, diedero la stura alla canzonetta di loro invenzione:
– Radichetta ha il muso sporco,
Mangia gente come l’Orco!
Radichetta intanto, messosi il pollice della mano destra tra le labbra soffiava lentamente, soffiava, soffiava, e diventava un omaccione spropositato. Non ostante il buio, qualcuno dei ragazzi se n’accòrse e diè l’allarme. Volevano scappare, ma Radichetta, con quel corpaccio spropositato sbarrava l’uscita del vicolo, afferrava a uno a uno i ragazzi, somministrava loro una lieve sculacciata e li metteva fuori; se gliene avesse data una forte, li avrebbe conciati per le feste. Pianti, strilli, grida di spavento. Un omaccione a quella maniera nessuno l’aveva mai visto; siccome, a ogni sculacciata, Radichetta mandava un grugnito per impaurirli di più, così appena uno gridò: L’Orco! l’Orco!, tutti si misero a urlare: L’Orco, l’Orco!
La madre era affacciata alla finestra:
– Lasciali andare, Radichetta! Basta, Radichetta!
E infatti, egli si tirò da una parte e lasciò scappare gli altri ragazzi senza molestarli. Poi, aperto l’uscio, era entrato carponi, con molto stento, aspettando di sgonfiare.
Ma la mattina dopo, tutto il villaggio ragionava animatamente dell’accaduto. Non c’era più dubbio: Radichetta era Orco! Altrimenti sua madre non avrebbe gridato dalla finestra:
– Lasciali andare, Radichetta! Basta, Radichetta! – E per non farsi riconoscere, si dava quella statura di tre spanne!
Le mamme erano atterrite. Prima di sera chiudevano in casa i bambini perché sapevano che gli Orchi si nutrono di carni tenerelle. E durante il giorno non volevano più che essi facessero il chiasso con Radichetta. In un batter d’occhio poteva trasformarsi in Orco e inghiottire qualcuno senza neppure masticarlo.
E non valeva che Radichetta non facesse male a nessuno. E non valse che in parecchie occasioni egli avesse salvata la vita di molte persone, quando il fiume vicino era straripato e aveva inondato le campagne e circondato il villaggio, e le acque torbide e vorticose portavano via pagliai, bestiame e tanta povera gente.
Radichetta, gonfiatosi fino a quattro metri di altezza, con le gambe in mezzo all’acqua, afferrava cinque, sei persone alla volta; due tre buoi a una volta, e li portava di corsa all’asciutto, fuori di pericolo. Aveva cominciato dalla sua mamma e non si era riposato fino a che non aveva salvato tutti coloro che chiedevano aiuto da ogni parte.
Allora, vistolo all’opra, tutti lo avevano invocato: Radichetta! Radichetta! con le lacrime agli occhi, con le braccia tese. Ma, dopo, nessuno gli era rimasto grato, nessuno voleva aver a che fare con quell’omino di tre spanne, che da un momento all’altro poteva trasformarsi in gigante.
– Peggio per loro! – disse un giorno Radichetta alla sua mamma. – Io me ne vado pel mondo, in cerca di fortuna. Voglio tornare ricco, mamma, e fabbricarti un palazzo.
– No, figliolo mio! Io sono contenta della nostra casetta; non saprei che cosa farmene di un palazzo. Come ti è venuta questa cattiva idea?
– Fra un anno sarò di ritorno.
Non ci fu verso di distoglierlo da questa risoluzione.
– Ricordati! Ricordati!
E la poveretta intendeva dire: ricordati delle due gobbe! Radichetta si mise, come suol dirsi, la via tra le gambe, e non si fermò fino a che non fu notte. Aveva camminato alla ventura; era stanco, e per riposarsi e dormire si sdraiava su l’erba di un prato.
Appena appisolato, si senti scuotere e chiamare.
– Ehi! Ragazzino!
Al lume di luna scòrse sei brutti ceffi, armati fino al denti.
– Chi siete? Che cosa volete?
– Siamo la Provvidenza. Togliamo a chi ha troppo e diamo a chi non ha niente. Vieni con noi.
Radichetta esitava, pure si era alzato in piedi.
– Quant’anni hai? – gli domandò uno di quei brutti ceffi.
– Venticinque.
Ed era vero.
– Ah! Dunque tu sei l’omino di tre spanne, di cui abbiamo inteso parlare.
– Sono l’omino di tre spanne.
– E puoi, a volontà, trasformarti in gigante?
– Che ve n’importa, se fosse così?
– Puoi arricchirti e farai arricchire.
– In che modo?
– Facendo da Provvidenza insieme con noi; togliere a chi ha troppo e dare a chi non ha niente.
– Questo significa rubare.
– Non badare alle parole. Su, su; vieni con noi.
Radichetta esitava.
– Sarai il nostro capo; comanderai e sarai obbedito. Con te, in poco tempo, diventeremo ricchi sfondati.
– Potrò fabbricare un palazzo alla mia mamma?
– Meglio di quello del Re.
Radichetta non esitò più. Togliere a chi ha troppo e dare a chi non ha niente, come dicevano coloro, non gli sembrava una cattiva azione. E poi l’idea di arricchire presto e di tornare al villaggio per fabbricare a sua madre un palazzo più bello di quello del Re gli faceva girare il capo.
– Che cosa dovrò fare con voi?
– Quasi niente. Quando sarà il momento opportuno diventerai un gigante, stenderai il braccio fin dove nessuno di noi potrebbe arrivare, ficcherai la mano da una finestra, da un balcone e farai repulisti di quel che ci sarà di troppo in una casa: oro, argento, pietre preziose, cose che non si mangiano ma che dànno da mangiare. Tu prenderai doppia parte. Le altre parti, una per ciascuno di noi.
– E che cosa daremo a chi non ha niente?
– A questo penserà ognuno per proprio conto. I primi a non aver niente siamo noi.
– No, non mi piace. Ci son tanti poveretti a questo mondo…
– Daremo una parte ai poveri; hai ragione. E andò con loro.
Arrivarono davanti a un palazzo che sembrava un castello. Ponti levatoi, torri, torrette, feritoie.
– Su, dunque, diventa gigante.
Radichetta si mise tra le labbra il pollice della mano destra e cominciò a soffiare, a soffiare, a soffiare. In pochi istanti era già più alto del più alto torrione del castello.
– Prèndici in mano a uno a uno, mèttici sul tetto e lascia fare a noi.
Radichetta ne afferrò tre con una mano e tre con l’altra, e li posò sull’orlo del tetto, davanti a un abbaino. Con una ditata sfondò l’imposta, e i ladri entrarono dentro.
Dopo un buon pezzo, rièccoli, carichi di ogni ben di Dio: oro, argento, pietre preziose. Radichetta questa volta li afferrò a uno a uno, li depose per terra, e disse:
– Dividiamo.
– Due parti per te; una per ciascuno di noi, e il resto pei poveri, i primi che incontreremo.
Incontrarono un vecchietto curvo sotto un gran fastello di legna.
Radichetta, che aveva voluto essere l’elemosiniere, ficcò la mano in un sacco:
– Tenete buon uomo; non penerete più.
E passarono oltre, prima che colui potesse rinvenire dalla sorpresa. Incontrarono una povera donna, vestita di stracci, secca allampanata, con due bambini per mano più cenciosi e più allampanati di lei.
Radichetta ficcò la mano in un sacco:
– Tenete, poverina; questo per te, e quest’altro per te.
Mamma e bambini non ebbero tempo di rinvenire dalla sorpresa, che già Radichetta e i suoi compagni si erano dileguati. Giunsero, verso sera, in un altro posto.
– Tu, Radichetta, domanderai alloggio in quel palazzo. Vedendoti così piccolo, non sospetteranno di nulla. Quando tutti saranno addormentati, ti gonfierai, aprirai l’uscio o una finestra, stenderai giù un braccio e ci prenderai a uno, a due, a tre, come ti tornerà più comodo. Pel resto, lascia fare a noi.
Gran bottino, assai più dell’altra volta. Avevano riempito sei sacchi: oro, argento, pietre preziose. Radichetta prima calò giù i sacchi, poi i compagni; e siccome stava per sgonfiare, infilò un finestrone, e si lasciò cascar giù a poca altezza dal terreno.
Dividiamo.
– Due parti per te; una per ciascuno di noi; e il resto ai poveri, i primi che incontreremo.
I ladri andarono a deporre il bottino in una delle grotte dove stavano nascosti durante la giornata, e poi, con la parte destinata al poveri, si fermavano a un capo di strada, in attesa del primo povero che sarebbe passato.
Prima passò una ragazzina che piangeva, tutta smarrita.
– Perché piangi, bella figliola?
– Avevo due capre che davano da campare alla mia mamma e a me; è venuto il lupo e me le ha sbranate.
– Tieni; non avrai più bisogno delle capre.
Radichetta le diè due manciate di monete d’oro.
E prima che colei potesse rinvenire dalla sorpresa, essi erano già lontani.
Incontrarono un contadino che tirava per la cavezza un asino spelato, sbilenco, tutto pieno di guidaleschi.
– Dove andate, compare?
– Vado a buttarmi da un precipizio assieme con la mia povera bestia. Era l’unica mia risorsa; ma la fatica e il cattivo nutrimento l’hanno ridotta tosi. Meglio morire che vivere di stenti; lasciatemi andare.
– Fatevi coraggio, compare; tenete da comprarvi un altr’asino, o un mulo, o un cavallo; non bisogna mai disperare.
– E voi chi siete?
– Siamo la Provvidenza.
E prima che il contadino rinvenisse dalla sorpresa, essi eran già lontani.
– Hai visto, Radichetta? Nessuno ci dice grazie, nessuno ci resta grato. Il meglio è che ognuno faccia la carità per proprio conto.
Radichetta, con tant’oro accumulato da parte sua, era divenuto un po’ avaro; voleva sempre accumularne dell’altro, per tornare ai villaggio e fabbricare a sua madre un palazzo più bello di quello del Re.
Così, dopo nuove imprese ancora più fortunate delle precedenti, diceva:
– Dividiamo.
– Due parti per te; e una per ciascuno di noi. Per coloro che non avran niente penserà ognuno per conto suo.
Incontrarono altri poveri, affamati, storpi, ciechi; e Radichetta, divenuto avarissimo, pensava:
– Per chi non ha, provvederanno quest’altri, lo devo fabbricare a mia madre un palazzo più bello di quello del Re.
E un giorno disse ai compagni:
– Me ne vado. Porto via la mia parte, per andare a fabbricare un palazzo a mia madre più bello di quello del Re. Quando lo avrò finito, ci rivedremo.
I sei ladri lo pregarono, lo scongiurarono di restar con loro un altro mese almeno; c’erano tre o quattro bei colpi da fare; ma Radichetta terme duro.
L’ultima notte che restò con loro, Radichetta non poteva prender sonno dalla contentezza di rivedere la sua mamma di cui non aveva saputo più notizie da tanti mesi.
Aveva detto: Me ne vado pel mondo in cerca di fortuna. E tornava con tanta ricchezza, che neppur lui sapeva quanta.
Nella notte, ai buio, credendolo addormentato, i sei ladri, sotto voce, ragionavano fra loro.
– Dovrà portarsi via davvero la sua parte? Ammazziamolo nel sonno, ora che è piccino di tre spanne.
– Aspettate – disse da sé Radichetta; – vi concio io.
E messosi il pollice della mano destra tra le labbra, cominciò a soffiare, a soffiare, a soffiare; e quando fu diventato un omaccione da poterli afferrare tutti per le gambe e sbatacchiarli nel muro, stese le braccia e li agguantò. I ladri cominciarono a urlare:
– Radichetta, che cosa fai?
– Vi do quel che meritate!
Li sbatté tutti contro il muro, e li lasciò più morti che vivi. Aveva fatto un disegno nella sua mente.
– Ora soffio nel pollice, mi carico addosso tutte le ricchezze, e via di corsa fino al villaggio. Giungerò prima che sia giorno.
Ma soffia, soffia, soffia, non aveva più fiato e intanto rimaneva un omino di tre spanne.
Figuriamoci il suo sbalordimento! Aveva perduto la gran virtù di crescer di statura, fino a divenire gigante. Ma ancora non capiva perché. Che cosa aveva fatto di male? Aveva tolto a chi aveva troppo e aveva dato a chi non aveva niente, come dicevano i suoi compagni.
Si era fatto giorno. Quei sei giacevano per terra, insanguinati, e non davano segni di vita. Radichetta prese con sé il poco che poteva portare addosso, e si avviò pel suo villaggio, con l’intenzione di tornare a riprese nella grotta, e portar via almeno la sua parte.
Picchiò all’uscio di casa sua.
– Mamma, apri; son io, Radichetta!
La povera donna diè un grido di gioia e corse ad aprire. Indietreggiò, spaventata:
– Ah, Radichetta! Che cosa hai fatto?
Radichetta non si era accorto che gli erano cresciute due gobbe, una davanti e l’altra di dietro. Così corto e piccinino, con quelle due gobbe sembrava un mostro addirittura.
– Non importa, mamma – egli disse. – Ho tanto denaro da poter fabbricarti un palazzo più bello di quello d’un Re.
Apre il sacco, dove egli aveva messo le cose più rare e più di valore della sua parte, e trova tanti gusci di chiocciola vuoti!
Soltanto allora Radichetta capì che aveva fatto male ad associarsi con quei ladri, e si pentì di essersi lasciato lusingare dalle parole di coloro e di esser diventato a poco a poco peggio di essi. Ma non c’era più rimedio. E dovette portare le due gobbe, una davanti e una di dietro, per tutta la vita.
Larga la via, la foglia è stretta
Questa è la fiaba di Radichetta.