Fiaba di Luigi Capuana
C’era una volta due poveri bambini che nessuno sapeva di chi fossero figli.
Si erano incontrati un giorno in una strada di campagna:
– Dove vai tu?
– Alla ventura; e tu?
– Alla ventura. Andiamo insieme?
– Andiamo insieme. Tu che cosa fai?
– Niente; chiedo l’elemosina.
– Anch’io.
– Hai tu babbo e mamma?
– Non li ho mai visti. E tu?
– Non li ho mai visti neppur io.
– Come ti chiami?
– Non lo so. E tu?
– Non lo so. Uguali in tutto, come fratelli.
– E saremo come fratelli. Ti piace?
– Mi piace.
Uno era biondo, l’altro era bruno. Scalzi, con quei quattro stracci addosso, ispiravano pietà a tutti quando chiedevano l’elemosina a voce bassa, tendendo le mani; pareva si vergognassero di chiederla.
Vedendoli andare attorno sempre insieme, allegri e sorridenti appena avevano ricevuto di che sfamarsi, la gente li aveva soprannominati Pane e Cacio: Pane il bruno e Cacio il biondo, che sembrava avesse qualche anno meno dell’altro.
Una mattina Pane avea trovato per terra uno zufolo di canna e si era provato a sonarlo; poi lo aveva dato a Cacio perché si provasse anche lui.
– Senti: — disse Cacio — tu sonerai lo zufolo ed io canterò. Ci guadagneremo il pane così.
– Bravo. Io sonerò, e tu canterai; ci guadagneremo il pane cosi.
E per poco, quella mattina non dimenticarono di chieder l’elemosina, divertendosi l’uno a canticchiare e l’altro ad accompagnarlo con lo zufolo.
Alcuni giorni dopo si erano già impratichiti, e andavano per le vie, fermandosi davanti alle botteghe, davanti alle porte delle case. Cominciava Pane: Tiù, tiù, tiù, per attirare l’attenzione della gente; poi Cacio si metteva a cantare una strana canzonetta di sua invenzione:
– Buona gente, buona gente,
La canzone non val niente;
L’ha composta l’appetito.
E lo zufolo: – Tiù! tiù! tiù! tiù!
– Quando noi avrem finito,
Tocca a voi di fare il più.
E lo zufolo: – Tiù! tiù! tiù! tiù!
Le canzoni sono belle,
Ma son meglio le ciambelle,
Noci, fichi, pere cotte…
E lo zufolo: – Tiù! tiù! tiù! tiù!
– Cose poche, cose molte,
Tocca a voi di fare il più!
E lo zufolo: – Tiù! tiù! tiù! tiù!
Un giorno si fermarono davanti al portone del palazzo del Re. Pane cavò di tasca lo zufolo e cominciò la sua sonatina. Si affacciarono a un balcone il Re, la Regina, la Reginotta e due sue sorelle minori. Cacio fece una bella riverenza e diè principio al canto. Quando giunse al punto che diceva:
– Tocca a voi di fare il più!
il Re gli buttò una moneta d’oro e la Regina una d’argento; la Reginotta e le sorelle tre manciatine di monetine di rame. Pane: Ttü, tiù, fece anche lui una bella riverenza e si mise a raccogliere assieme con l’altro le monete sparse per terra.
Quel giorno fecero baldoria; non avevano mai guadagnato tanto da che si erano messi a sonare e a cantare.
Lasciarono trascorrere una settimana e tornarono di nuovo davanti al portone del palazzo reale. Alle prime note dello zufolo di Pane, ecco al balcone il Re, la Regina, la Reginotta e le due sue sorelle minori.
Lo zufolo: – Tiù! tiù! tiù! tiù!
E Cacio intonava un’altra canzonetta composta da lui:
– Sonare a pancia vuota è brutta cosa,
Cantare a pancia vuota è peggio assai.
Lo zufolo: – Tiù! tiù!
Il Re, la Regina e le Principesse ridevano.
E Cacio:
– Sonare a pancia piena è bella cosa,
Cantare a pancia piena è meglio assai!
Lo zufolo: – Tiù! tiù!
Il Re, la Regina e le Principesse ridevano.
E Cacio:
– Chi l’ha provato o non lo vuol provare,
A pancia piena ci faccia cantare.
E lo zufolo: – Tiù! tiù!
Il Re gli buttò due monete d’oro e la Regina due d’argento; la Reginotta e le sorelle doppie manciate di monetine di rame. Pane e Cacio, raccolte allegramente le monete sparse per terra, fecero due belle riverenze, e andarono via.
Erano proprio Pane e Cacio; non quistionavano mai. Quel che voleva l’uno voleva pure l’altro. Si erano rimpannucciati, avevano un gruzzoletto da parte, che portavano addosso un giorno per uno nella tasca interna della giacchetta e non dormivano più a cielo aperto, come prima. Avevano affittato una cameretta in casa di una povera donna, con un solo lettino, e la sera, avanti di coricarsi, passavano in rassegna il guadagno della giornata.
– Pane, tu sei un principe!
– Cacio, tu sei un barone!
Ripetevano ogni sera questa facezia, e ridevano. Facevano tutt’un sonno fino alla mattina dopo.
Trascorsa un’altra settimana, si presentarono, al solito, davanti al palazzo del Re. Pane stava per cavar di tasca lo zufolo, quando si accostò una guardia.
– Ordine di Sua Maestà, salite a sonare nelle stanze reali.
Pane e Cacio erano confusi per tanto onore; e appena si trovarono al cospetto del Re, della Regina, della Reginotta, delle due Principesse sue sorelle e di molti dignitari di Corte, si smarrirono talmente, che Pane non aveva fiato per soffiare nello zufolo e Cacio si sentiva stringere la gola da non potere cacciar fuori un filo di voce. Il Re, per rinfrancarli, domandò al bruno:
– Come ti chiami?
– Pane, Maestà!
Il Re si rabbuiò in viso e lo guardò con certi occhi!
– E tu? – domandò al biondo.
– Cacio, Maestà!
Il Re si rabbuiò ancora più in viso e lo guardò con certi occhi come se lo volesse divorare!
– Andate via! Via, fuori dai mio regno! Quanto più lontano potete. E guardatevi bene di capitarmi tra i piedi!
Nessuno sapeva spiegarsi quelle minacciose parole.
Pane e Cacio, atterriti, erano scoppiati in un gran pianto.
– Grazia, Maestà! – pregava la Regina intenerita.
– Voi non sapete! Voi non sapete! – rispondeva il Re voltandole le spalle.
E Pane e Cacio, la mattina dopo, ancora sbalorditi e con le lacrime agli occhi, si avviarono per recarsi lontano, fuori del regno.
La Regina era rimasta assai mortificata della risposta e del gesto del Re davanti alle persone di Corte. E la sera, in camera, insisté:
– Maestà, perché mi avete detto: «Voi non sapete! Voi non sapete!». E mi avete voltato le spalle?
– Badate, Regina! È un segreto che non deve essere conosciuto da altri. Ricordate quel Mago che venne a Corte anni addietro?
Lo ricordo.
– Consultato intorno all’avvenire della nostra famiglia e del nostro regno, egli rispose: «Maestà, Pane e Cacio vi daranno grandi guai!». E non volle dirne di più. Ed ecco che Pane e Cacio sono arrivati. Se non fossero così ragazzi, li avrei fatti ammazzare.
– Che male possono essi fare quei due poverini?
– Non lo sappiamo. I nomi però sono quelli. E non ragioniamone più, pel nostro bene, Regina.
Di li a non molto, cominciarono i guai.
Una delle Principessine cadde malata di sfinimento. Dimagriva, impallidiva ogni giorno più, stava muta, con gli occhi chiusi e ogni tanto sospirava.
– Perché sospirate, figliuola mia?
– Maestà, voglio Pane.
La Regina ordinò subito che le recassero del pane fresco, manipolato a posta per lei. La Principessina non si degnava neppure di guardarlo.
Ed ecco l’altra Principessina che cade malata anche lei. Dimagrava, impallidiva ogni giorno di più, stava muta, con gli occhi chiusi e ogni tanto sospirava.
– Perché sospirate, figliuola mia?
– Maestà, voglio Cacio.
La Regina ordinava subito che le recassero del cacio; ma la Principessina non si degnava neppure di guardarlo.
E tutt’e due le sorelle languivano, senza che i medici di Corte riuscissero a trovar rimedio a quella misteriosa malattia.
– Avete capito, Regina, che il Mago ha predetto il vero? Le Principessine sono colpite da qualche brutta malia. Quando dicono: «Vogliamo pane, vogliamo cacio» intendono di quei due! Era meglio farli ammazzare.
Quell’anno, i seminati promettevano una straordinaria raccolta. Avevano avuto in tempo piogge abbondanti, e già accestivano sotto il sole degli ultimi giorni di maggio. Ma che è che non è, ingialliscono, intristiscono prima di maturare le spighe, e il promettente ricolto va interamente perduto. Gran desolazione per tutto il regno.
E quasi questo non bastasse, che è che non è, si sviluppa una gran moria tra gli animali da pascolo; in meno di pochi mesi non rimanevano vive né una vacca, né una pecora, né una capra. Quell’anno non si poté fare neppure una forma di cacio. Gran desolazione per tutto il regno.
Il popolo mormorava: – Se il Re non avesse mandato via Pane e Cacio, queste disgrazie non sarebbero accadute! Immensa folla si radunava sotto il palazzo reale.
– Vogliamo Pane! Vogliamo Cacio!
E intendevano di quei due, che non si sapeva dove fossero andati.
Il Re fu costretto a mandare banditori pel regno e fuori.
– Chi trova i due ragazzi chiamati Pane e Cacio, ne dia notizia a Sua Maestà; riceverà una buona mancia.
Passarono settimane, passarono mesi, e di Pane e Cacio nessuna nuova!
– Avete capito, Regina, che il Mago ha predetto il vero? Era meglio farli ammazzare!
– Non dite così, Maestà! Ci sarebbero capitati peggiori guai.
Finalmente, uno dei banditori andato fuori del regno venne a dire:
– Li ho trovati. Sono diventati due signori; hanno palazzo, giardini, terre, ma… pretendono troppo.
– Che cosa pretendono?
– Che Sua Maestà vada a pregarli fino a casa loro.
Il Re, dal dispetto, si morse le labbra; sentendo però gli urli della folla davanti al palazzo: «Vogliamo Pane! Vogliamo Cacio!», si fece forza e rispose:
– Andrò a pregarli fino a casa loro!
– E pretendono…
– Che cosa altro pretendono?
– Che Sua Maestà dia parola di Re di sposare con loro le due giovani Principesse.
Il Re, dal dispetto, si morse le labbra; sentendo però gli urli della folla davanti al palazzo reale: «Vogliamo Pane! Vogliamo Cacio!», si fece forza e rispose:
– Parola di Re, darò ad essi in ispose le due giovani Principesse.
Il Re si mise subito in viaggio. Pane e Cacio lo accolsero con grandi onori nel loro palazzo.
– Vostra Maestà ha voluto incomodarsi…
Pareva che volessero canzonarlo.
– Noi siamo agli ordini di Vostra Maestà.
– Parola di Re non va indietro; sposerete le Principesse mie figlie, ma bisogna prima far cessare la carestia e la moria.
– Per la carestia, ci vuol poco.
E Pane spiegò minutamente quel che occorreva fare.
– Per la moria delle vacche e delle pecore ci vuole anche meno.
E Cacio spiegò minutamente quel che occorreva di fare.
– Intanto, – soggiunse Pane – la mia Principessa bionda si prepari il corredo.
– Intanto, – soggiunse Cacio – la mia Principessa bruna si prepari il corredo.
– E ricordatevi, Maestà: parola di Re non va indietro! – conclusero tutt’e due a una volta.
Il Re tornò verde dalla bile e più rabbuiato di quando era partito.
– Avete capito, Regina, che il Mago ha predetto il vero? Era meglio farli ammazzare. Ora Pane e Cacio dettano leggi. Per far cessare la carestia ecco cosa bisogna fare:
Preparare la farina per una fornata di pane; la Regina stacciarla, le Principesse impastarla, il Re ardere il forno e infornare le pagnotte lievitate. Nello stesso momento, ardere i forni in tutte le case del regno, spazzarli col fruciandolo, tapparli e attendere. Appena cotta la fornata di palazzo reale, tutti i forni delle case del regno si sarebbero trovati pieni anch’essi di pagnottelle bell’e cotte.
Al Re sapeva duro di dover fare il fornaio; ma per amore delle figliole e del popolo non osava di rifiutarsi. La Regina, invece, stacciava volentieri la farina e le Principesse si divertivano a impastarla e a ridurla in pagnotte.
Le Principesse erano già guarite e preparavano i corredi.
La sera scendevano nel giardino, mungevano una capra che il Re aveva dovuto comprare, e lasciavano il latte al fresco. I pecorai già avvisati, preparavano le caldaie, e la mattina dopo le trovavano colme di latte.
Così in tutte le mandre del regno potevano venir preparate ricotte e forme di cacio.
E il popolo, contento e soddisfatto, andava in folla a gridare sotto il palazzo reale:
– Viva Pane! Viva Cacio!
Intanto si avvicinava il tempo che essi sarebbero arrivati per sposare le Principesse.
Il Re non ne poteva più di dover ardere il forno, di spazzarlo col fruciandolo, e d’infornare il pane due volte nella giornata, due volte nella nottata. E quando uno dei Ministri, per adularlo, gli disse: – A Vostra Maestà stan bene in mano tanto lo scettro quanto il fruciandolo – ci mancò poco che non lo inseguisse a colpi di fruciandolo per le scale.
Ma come fare? Se non infornava il pane lui nel forno di palazzo reale, sarebbe venuto meno il pane agli altri forni e la popolazione sarebbe morta di fame.
Le Principessine erano allegre; tra otto giorni dovevano arrivare i loro futuri mariti, Pane e Cacio. Se non che, da mattina a sera esse ora si bisticciavano con gran noia di tutta la Corte.
– Il mio bruno è più bello del tuo biondo!
– Il mio biondo è più bello del tuo bruno!
– Il tuo bruno ha gli occhi e il naso così e così!
– Il tuo biondo ha le labbra e gli orecchi così e così!
E facevano certi gesti, certe smorfie!
– Il tuo bruno non lo vorrei neppure per servo!
– Il tuo biondo non lo vorrei neppure per sguattero!
E si voltavano le spalle, con due smorfiacce.
– Voialtre vi bisticciate, – disse un giorno la Reginotta – ma prima di voialtre dovrò sposare io!
– Se nessuno ti vuole!
– Se nessuno ti chiede!
E doveva intervenire il Re, minacciandole col fruciandolo, per farle stare zitte. Il Re, in cor suo, pensava:
– Ecco un bel pretesto per rimandar a tempo indeterminato le nozze di Pane e Cacio. La Reginotta ha ragione: deve sposare lei prima delle sorelle minori.
Intanto la gente aveva arato i campi, buttata la sementa, e il grano già inverdicava, promettendo una grande raccolta. Le stalle si erano popolate di bestiame, le mandre di pecore. E quantunque fosse comodo avere il pane e i latticini con quella facile maniera, tutti godevano di veder prossimo il tempo di liberarsi dalla soggezione di dover stare alla mercè di Sua Maestà. Un giorno o l’altro poteva venire il capriccio alla Regina di non più stacciare, alle Principesse di non più impastare la farina, al Re di non più ardere il forno e infornare le pagnotte lievitate, e il popolo avrebbe corso il pericolo di morire di fame. Per questo Pane e Cacio, al loro arrivo, ebbero accoglienze trionfali; per questo tutti volevano concorrere a preparare feste non mai viste pei prossimi sponsali.
Pane e Cacio erano diventati due bei giovinotti e facevano sfoggio di abiti sfarzosi. Avevano portato alle Principesse magnifici doni, e regali alla Regina e alla Reginotta. Alloggiati nel palazzo reale, pranzi, divertimenti, cene sontuose; ma di nozze neppure una parola.
Avevano notato che la Reginotta non interveniva nei divertimenti, nei pranzi, nelle cene.
Pane, in disparte, aveva interrogato la sua Principessa bionda.
– Perché?
– Perché è sciocca e vanitosa.
Cacio aveva fatto la stessa interrogazione alla sua Principessa bruna:
– Perché?
– Perché è sciocca e vanitosa.
Intanto pranzi, divertimenti, cene, ma di nozze neppure una parola.
E Pane e Cacio, una mattina, dissero al Re:
– Maestà, parola di Re non va indietro.
– Lo so; ma prima deve prender marito la Reginotta.
– Il marito sta per arrivare. Tra giorni verrà a chiederla il Reuccio di Spagna.
Il Re voleva menar le cose per le lunghe, trovava una scappatoia per non adempire la parola data; e per ciò fu contrariato dalla notizia ricevuta.
– Chi sa se il Reuccio di Spagna piacerà alla Reginotta?
– Se non sposerà il Reuccio di Spagna, non troverà più un altro marito.
– E poi… le Principessine vogliono prima sapere chi siete, d’onde venite.
– Fui frumento e poi farina,
Pane ho nome e pane sono.
Alla mia Principessina
Io non voglio dir di più.
Cavò di tasca lo zufolo e fece: – Tiù! tiù!
– Erba fui e latte appresso,
Cacio ho nome e cacio sono.
Io di più non ho promesso,
E non voglio dir di più.
E l’altro, con lo zufolo, fece di nuovo. – Tiù! tiù!
Le Principesse che stavano a origliare dietro l’uscio, irruppero, furiose, nella stanza.
– Non è vero! Noi non vogliamo saper niente. Tu devi essere il mio Pane! Tu devi essere il mio Cacio!
Che cos’altro poteva inventare il Re per tirare in lungo le nozze? E si afferrò di nuovo al pretesto:
– Prima deve sposare la Reginotta!
Non aveva finito di dirlo, ch’entra uno dei Ministri:
– Maestà, è arrivato un ambasciatore di Spagna.
Veniva a chiedere la mano della Reginotta pel Reuccio del suo sovrano.
– Ha fretta di sposare, questo Reuccio?
– Fra otto giorni precisi, Maestà.
– Reuccio e Reginotta sono troppo giovani. Sarà meglio aspettare a sposarli tra un anno.
– O sposano tra otto giorni, o mai più.
– Allora!…
Il Re si strinse nelle spalle e inghiottì anche questo amaro boccone; da un pezzo non faceva altro, povero Re!
La Reginotta e il Reuccio erano partiti da una settimana.
– Maestà, parola di Re non va indietro!
– Ne riparleremo tra un mese.
– Maestà, parola di Re non va indietro!
– Ne riparleremo tra quindici giorni.
Intanto egli macchinava il modo come disfarsi di Pane e Cacio, che diventavano più insistenti che mai.
Una mattina cerca cerca le corone reali e non si trovano. Tutto il palazzo reale fu in subbuglio. Erano state riposte nell’armadio la sera avanti, dopo una festa da ballo. Chi poteva averle rubate durante la notte? Persone che abitavano nel palazzo reale. Si fruga di qua, si fruga di là; tutte le stanze son messe sossopra. E, all’ultimo, dove vengon trovate le due corone? Quella del Re in camera di Pane, sotto le materasse del letto; quella della Regina, in camera di Cacio, in fondo a una cassetta dell’armadio.
Pane e Cacio, per ordine del Re, furono ammanettati come ladri, e gettati nel fondo di un carcere.
Mentre li conducevano via, scherzavano con le guardie, ridevano, quasi niente fosse stato.
– Dite a sua Maestà: «Parola di Re non va indietro!».
Quando il capo delle guardie glielo riferì, il Re rispose:
– Sta bene; ho detto che li farò impiccare e manterrò.
Le Principessine erano inconsolabili. Non sapevano persuadersi come mai Pane e Cacio avessero potuto commettere quella mala azione. Non se ne sapeva persuadere neppure la Regina. Ma non osavano di parlarne al Re, tanto appariva adirato.
Pane e Cacio, quasi per irrisione dei loro nomi, ricevevano ogni giorno, per mantenimento, due fette di pane nero e due fette di cattivo cacio. I guardiani però sentivano venir fuori tali odori di squisite pietanze da far venire l’acquolina in bocca; entravano nella cella dei prigionieri e non trovavano niente; le fette di pane e di cacio si ammonticchiavano, indurite, in un canto, e quei due erano floridi, rosei, come se desinassero e cenassero da gran signori.
Ogni notte poi accadeva questo nel palazzo reale.
Di tanto in tanto, l’uscio della camera del Re veniva scosso da due forti picchi. Sua Maestà saltava giù dal letto, apriva l’uscio e non scorgeva nessuno. Si rimetteva a letto, e di lì a poco di nuovo bum! bum! Il Re, che era sul punto di appisolarsi, trasaliva; saltava giù, apriva l’uscio e non scorgeva nessuno. Non gli passava per la testa che quei picchi potessero provenire da Pane e Cacio.
Anche le Principessine sentivano ogni notte lievi picchi agli usci delle loro camere, ma avevano subito indovinato.
– Tic! tic!
– Sei tu Pane? Se sì, dài un picchio solo.
– Tic!
– Toc! toc!
– Sei tu Cacio? Se sì, dài un picchio solo.
– Toc!
– Pane, vuol dire che ci sposeremo?
– Tic!
– Cacio, vuol dire che ci sposeremo?
– Toc!
Il Re non sapeva decidersi a far impiccare i pretesi ladri delle due corone reali. Era tormentato, ogni giorno di più, dal rimorso di essere stato lui a nasconderle tra le materasse del letto in camera di Pane, e in fondo alla cassetta dell’armadio in camera di Cacio. Cominciava ad aver paura di quei due che dovevano essere Maghi o figli di Maghi, se avevano potuto far cessare la carestia e la moria con quello stranissimo mezzo.
Quando finalmente capì che i forti picchi di ogni notte all’uscio della sua camera potevano provenire da quei due Maghi o figli di Maghi, il suo terrore non ebbe confine. E ordinò che gli conducessero al cospetto Pane e Cacio.
– Ah, Maestà, che disgrazia! Pane e Cacio sono scappati via, non si sa come. I catenacci degli usci e delle finestre sono là ancora intatti. Noi abbiamo fatto buona guardia giorno e notte!
Il Re rimase di sasso! Chi sa quanti altri guai sarebbero piombati su la famiglia e sul regno tutto! E invece di prendersela con se stesso, se la prendeva con le Principessine, quasi la colpa fosse stata di loro.
– Maestà, voglio Pane! Maestà, voglio Cacio!
Ne contraffaceva i sospiri e il tono della voce di quando erano malate, e aggiungeva gesti di minaccia. Sembrava ammattito.
In quei giorni arrivavano gli ambasciatori di un Re di paesi lontani e chiedevano udienza. Quando cominciarono a parlare nessuno li capiva: il Re e i Ministri meno degli altri. E tra le stranissime parole che quegli urlavano, irritati di non vedersi capiti, erano ripetute con più frequenza nepa e cioca: anzi ogni volta che le pronunziavano, tutti gli ambasciatori facevano un profondo inchino fino a terra.
C’era da disperarsi. Gli ambasciatori gesticolavano, pestavano i piedi. Si indovinava che minacciavano un caso di guerra. Il Re, stizzito, esclamò:
– Ma che cosa posson volere con questi lor nepanepanepa e ciocaciocacioca?
Il Re si fermò allibito. Pronunziando frettolosamente quelle sillabe, gli erano risultati all’orecchio i nomi di Pane e Cacio!
Quegli ambasciatori di un Re lontano parlavano pronunziando al rovescio tutte le parole; e per ciò invece di dire pane, dicevano nepa; invece di dire cacio, dicevano cioca. Allora fu facile intendersi.
Essi venivano in nome del loro Re a reclamare Pane e Cacio, che erano suoi figli. Una Strega glieli aveva rapiti bambini, Pane di un anno e sei mesi, Cacio di un anno, e il povero padre desolato non ne aveva saputo più nuova. Ora un mercante, andato da quelle parti, avea recata la notizia che due bei giovani chiamati Pane e Cacio erano stati arrestati e dovevano essere impiccati.
Il Re era pronto a pagare qualunque taglia, pur di riavere i figliuoli. Se non gli si restituivano a questi patti, sarebbe venuto a prenderseli con la forza, mettendo a ferro e fuoco tutto il regno.
Quando il Re disse che Pane e Cacio erano scappati di carcere e che nessuno sapeva dove fossero andati, gli ambasciatori, increduli, intimarono la guerra e stavano per andar via.
– Avete capito, Regina, che il Mago ha predetto il vero?
– Capite ora, Maestà, che è stato bene non averli fatti ammazzare?
– Ma come faremo? Dove andare a pescarli?
Non aveva ancora finito di dir così, che s’intese nella piazza un gran tumulto.
– Viva Pane! Viva Cacio! Viva! Viva!
E pochi momenti dopo, essi entravano nella gran sala con al braccio le Principessine mezze pazze di gioia.
– Questo è il mio Pane!
– Questo è il mio Cacio!
– Ora che sapete chi siamo…
Il Re, che si sentiva rivivere, li abbracciò, li baciò come figliuoli, e disse:
– Vi sposo sull’istante!
Allora i Re potevano; e Pane e Cacio e le due Principesse furono lì per lì mariti e mogli.
La sera i due Principi, ora dobbiamo chiamarli così, raccontarono che erano stati tolti di mano alla Strega da una Fata.
Stretta la foglia, sia larga la via,
Dite la vostra che ho detto la mia.