Racconto di Lewis Carrol (1865)
«Per tutto il pomeriggio dorato
senza fretta abbiamo navigato:
le nostre mani non sono abili,
le nostre voci si fanno labili,
mentre le braccia non sanno dare
l’impulso necessario a remare.
Barca crudele! Per ingannare
il nostro lungo giorno sul mare
le mie bambine vogliono udire
la favoletta che sto per dire.
E’ possibile dire di no
a tre bambine? Dir non lo so.
La prima ordina: “State attente!
E tu comincia!” dice impaziente.
La seconda, con tono cortese:
“Ti prego, non tenerci sospese”.
La terza, piccolina com’è,
m’interrompe con tanti “perché?”
D’un tratto le voci sono spente
e le bimbe si fan più attente:
Alice se ne va tutta sola.
Le bimbe son senza parola.
Alice è in una terra incredibile
incontro a un’avventura impossibile.
E la storia continua.
Ma ormai non ho più fantasia. “Non la sai?”
mi chiedono le bimbe insistenti
con occhi che mi fissano attenti.
“Il resto ve lo dico più tardi”.
“No” rispondono. “E’ ora più tardi.”
Così è nata la storia d’Alice,
lentamente, in un giorno felice,
in una barca sola sul mare,
quando il tempo dovevo ingannare.
E ora che la favola è pronta
torniamo mentre il sole tramonta.
La favola d’Alice rimane
come un sogno di cose lontane,
come un dolce ricordo gentile
chiuso nella memoria infantile,
come l’odore di rosmarino
ch’è nella veste del pellegrino».
CAPITOLO 1.
NELLA TANA DEL CONIGLIO.
Alice cominciava a essere veramente stufa di star seduta senza far nulla accanto alla sorella, sulla riva del fiume. Una o due volte aveva provato a dare un’occhiata al libro che sua sorella stava leggendo, ma non c’erano né figure né filastrocche. «Che me ne faccio d’un libro senza figure e senza filastrocche?» pensava Alice.
A dire il vero non era possibile pensare molto, perché faceva così caldo che Alice si sentiva tutta assonnata e con le idee confuse: adesso si stava chiedendo se valesse la pena di alzarsi a raccogliere fiori per fare una ghirlanda di margherite, quando ecco che improvvisamente le passò proprio davanti un Coniglio Bianco con gli occhi rosa. La cosa non sembrò TROPPO strana, ad Alice. Non le parve neppure TROPPO strano che il Coniglio dicesse tra sé: «Povero me, povero me! arriverò troppo tardi!» Solo in un secondo tempo, quando ripensò a questo fatto, Alice si rese conto che avrebbe dovuto meravigliarsene; sull’istante le sembrò addirittura una cosa naturale.
Però quando il Coniglio TIRO’ FUORI UN OROLOGIO DAL TASCHINO DEL PANCIOTTO e, dopo avergli dato un’occhiata, affrettò il passo ancora di più, Alice balzò in piedi meravigliata perché ricordava benissimo di non aver mai visto un coniglio con un taschino nel panciotto e, per di più, con un orologio dentro questo taschino! Ormai era tutta presa dalla curiosità: lo rincorse attraverso il campo e per fortuna arrivò in tempo per vederlo infilarsi in una grande tana, sotto una siepe.
Un momento dopo Alice s’infilava nella tana dietro di lui: non le venne neppure in mente di chiedersi come avrebbe poi fatto a uscire da quel posto.
Per un tratto la tana era diritta come una galleria, poi sprofondava all’improvviso, ma così all’improvviso, che Alice non fece neppure in tempo a pensare che era meglio fermarsi, perché si trovò subito a sprofondare lungo quella specie di pozzo veramente profondo.
O il pozzo era molto profondo oppure Alice cadeva lentamente: il fatto certo è che lei, prima d’arrivare in fondo, ebbe tutto il tempo di guardarsi intorno e di chiedersi che cosa le stesse capitando. In un primo tempo cercò di guardare in basso per vedere dove stava andando a finire. Ma c’era troppo buio e non si vedeva niente. Allora guardò le pareti del pozzo e si accorse che erano piene di credenze e di scaffali. Da ogni parte si vedevano carte geografiche e quadri appesi ai chiodi. Alice prese a volo un barattolo da una credenza: sull’etichetta c’era scritto «MARMELLATA D’ARANCE». Però fu molto delusa quando si accorse che il barattolo era vuoto. Non voleva buttarlo via, perché aveva paura che, cadendo, potesse ammazzare qualcuno. Allora lo posò sopra un’altra credenza, mentre le passava davanti.
«Bene!» pensava intanto Alice. «Dopo una caduta come questa, un capitombolo lungo le scale mi sembrerà uno scherzo! A casa troveranno che sono proprio coraggiosa! Anzi sono sicura che non avrei paura nemmeno se dovessi cadere dal tetto di casa!» (Questo, molto probabilmente, era vero.) E cadeva, cadeva, cadeva. Ma non finiva mai di sprofondare? «Chissà quanti chilometri di caduta ho fatto finora» disse ad alta voce.
«Ormai devo esser vicina al centro della terra. Vediamo: sarebbero più di seimila chilometri di profondità, mi sembra…» (Alice aveva imparato parecchie cose come queste a scuola, e anche se non era certamente la migliore occasione per fare sfoggio della sua erudizione, dato che non c’era nessuno ad ascoltarla, era però un buon esercizio ripetere quelle cose). «Sì, dev’essere proprio la distanza giusta. Però vorrei sapere il grado di latitudine e di longitudine che ho raggiunto». (Alice non aveva la più piccola idea di che cosa fosse la Latitudine e tanto meno la Longitudine: però le piaceva dire queste due parole).
Poi cominciò a pensare ancora: «Chissà se attraverserò TUTTA la terra.
Sarebbe divertente capitare fra la gente che cammina a testa in giù! Mi pare che si chiamino gli Antipati…» (Questa volta era abbastanza contenta che non ci fosse nessuno ad ascoltarla, perché la parola non le sembrava proprio quella giusta). «Bisognerà che chieda a qualcuno il nome del paese, si capisce. Per favore, signora, questa è la Nuova Zelanda oppure l’Australia?» (Cercò d’inchinarsi con gentilezza, mentre parlava… pensate un po’: inchinarsi educatamente mentre si cade attraverso l’aria! Ci riuscireste voi?) «Chissà che bambina ignorante penserà che io sono! No, è meglio non domandare; forse lo troverò scritto in qualche posto».
E cadeva, cadeva, cadeva. Non c’era niente da fare. Perciò Alice ricominciò a parlare. «Credo che Dina sentirà molto la mia mancanza, stasera». (Dina era la gatta) «Spero che non dimentichino di darle il suo piattino di latte, quando sarà l’ora della merenda. Dina cara, vorrei che tu fossi qui con me ! Non ci sono topi per aria, lo so, ma potresti acchiappare un pipistrello: somiglia molto a un topo, no? Chissà se i gatti mangiano i pipistrelli».
A questo punto Alice cominciò a sentir sonno e continuò a parlare fra sé, come in dormiveglia: «I gatti mangiano i pipistrelli? I gatti mangiano i pipistrelli?» ripeteva. E a volte diceva: «I pipistrelli mangiano i gatti?» Infatti, poiché non era in grado di rispondere a nessuna delle domande, non dava molto peso alla maniera in cui se le poneva. Alla fine si accorse che si stava addormentando. A un certo punto cominciò a sognare di trovarsi a passeggio con la sua Dina, a braccetto, e di domandare alla gatta con molta serietà: «E adesso, Dina, dimmi proprio la verità: l’hai mai mangiato un pipistrello?» D’un tratto – BUM! BUM! – arrivò proprio al fondo e si trovò sopra un mucchio di foglie secche. Aveva finito di cadere.
Alice non s’era fatta niente e un attimo dopo era già in piedi. Guardò in alto, ma era tutto buio sulla sua testa. Davanti a lei c’era un altro lungo corridoio, in fondo al quale fece appena in tempo a vedere il Coniglio Bianco, che stava svoltando l’angolo. Non c’era un minuto da perdere. Alice si mise a correre come il vento e arrivò in tempo per sentirlo dire, mentre voltava l’angolo: «Per i miei occhi, per i miei baffi, s’è fatto tremendamente tardi!» Ormai Alice gli molto vicina, ma quando anche lei girò l’angolo, il Coniglio non si vedeva più. Alice si trovò in una sala bassa e lunga, illuminata da una fila di lampade che pendevano dal soffitto. Intorno alle pareti si vedevano parecchie porte, ma erano tutte chiuse. Fece un giro completo, cercando inutilmente d’aprirle, e poi si diresse tutta afflitta verso il centro della sala. Si chiedeva come avrebbe potuto fare per uscire da quel posto.
A un tratto vide un tavolino a tre gambe, tutto di vetro, sul quale non c’era altro che una piccolissima chiave d’oro. Alice pensò subito che quella fosse la chiave di una delle porte. Invece non era così: o la chiave era troppo piccola, oppure le serrature erano troppo grandi; la cosa certa era che nessuna porta si apriva. Provò a fare il giro della stanza un’altra volta e a un tratto si trovò davanti a una tendina che prima non aveva visto; dietro c’era una porticina alta quasi trenta centimetri. Provò a far entrare la piccola chiave d’oro nella serratura e fu proprio contenta di vedere che si adattava benissimo.
Alice allora aprì la porticina: essa dava su un piccolo corridoio, non più grande della tana d’un topo. S’inginocchiò e, in fondo al corridoio, vide il più bel giardino che si possa immaginare. Allora le venne voglia di uscire da quella stanza oscura e passeggiare fra quelle aiuole fiorite, fra quelle fresche fontane. Ma attraverso quel buco non poteva passare nemmeno la sua testa.
«E anche se ci passasse la testa», pensava la povera Alice «a che mi servirebbe senza le spalle? Dovrei essere capace di ritirarmi come un telescopio! Forse ci riuscirei, se sapessi da dove cominciare».
Infatti, come voi sapete, le erano ormai successe tante cose straordinarie che Alice cominciava sul serio a credere che per lei non ci fossero cose impossibili.
Ora però era inutile restare ad aspettare davanti a quella porticina; perciò Alice tornò verso la tavola di vetro con la speranza di trovarci un’altra chiave o almeno un libro che insegnasse il modo d’accorciare la gente alla maniera dei telescopi. Invece trovò una bottiglietta (Alice era certa che prima non c’era) con sopra un cartello che diceva «BEVIMI» in caratteri di stampa grandi e belli.
“Bevimi”: era facile a dirsi. Ma la saggia piccola Alice non ebbe fretta.
«Prima» disse «guarderò bene se c’è scritto sopra “veleno”». Infatti aveva letto un mucchio di racconti dove c’erano bambini bruciati o mangiati da bestie selvagge o che erano rimasti vittime di cose altrettanto spiacevoli, proprio perché non avevano voluto obbedire ai consigli delle persone grandi. Per esempio, i grandi dicono che un attizzatoio arroventato brucia le mani se uno lo tiene troppo a lungo; che se vi tagliate MOLTO profondamente un dito con un coltello, il dito di solito sanguina; che se bevete il contenuto d’una bottiglia sulla quale è scritto “veleno”, quasi certamente vi capita, prima o poi, di sentirvi male.
Ad ogni modo, su quella bottiglia NON c’era scritto “veleno”, perciò Alice si azzardò ad assaggiarla e la trovò molto buona. Il sapore e l’odore avevano qualcosa che ricordava la torta di ciliege, la crema, l’ananasso, il tacchino arrosto, il croccante e i crostini caldi imburrati. Naturalmente la bevve tutta.
«Che strana sensazione!» disse Alice. «Sembra che mi stia accorciando, come un telescopio».
Era proprio così. Adesso Alice era alta non più di venti centimetri.
Il suo volto s’illuminò al pensiero che quella era proprio la statura che ci voleva per passare dalla porticina e arrivare in quel magnifico giardino. Però aspettò ancora un po’ per vedere se continuava ad accorciarsi: si sentiva un po nervosa, a questo proposito.
«Speriamo che la smetta» si diceva. «Se continuo così, finirò col consumarmi tutta come una candela. E allora che aspetto avrei?» Cercò d’immaginare che aspetto ha la fiamma di una candela quando si è spenta, ma a dire il vero non le sembrava di aver mai visto una cosa di questo genere.
Dopo un po’, visto che non succedeva più niente, decise di andare subito nel giardino. Ma che sfortuna! Quando si trovò dinanzi alla porta, si accorse che aveva dimenticato la chiave d’oro. Allora ritornò verso il tavolo, ma si accorse che non arrivava più a prenderla. Vedeva benissimo la chiave attraverso il vetro e fece molti tentativi per arrampicarsi lungo una gamba del tavolo, ma scivolava sempre. Dopo aver provato diverse volte si sentì così stanca che si mise a sedere per terra e cominciò a piangere.
«Ma perché piango? Non serve proprio a niente!» disse fra sé Alice. E dopo un po’, con un tono deciso, aggiunse: «Ti consiglio di smetterla immediatamente».
Di solito Alice si dava degli ottimi consigli, però poi li seguiva raramente. Qualche volta arrivava perfino a sgridare se stessa, così severamente da farsi venire le lacrime agli occhi. Un giorno tentò addirittura di tirarsi gli orecchi perché aveva provato a imbrogliare sui punti durante una partita a palla tra lei e lei stessa. Infatti questa strana bambina pretendeva a volte d’essere due persone.
«Ma ora» pensava la povera Alice «non mi servirebbe a niente fingere d’essere due persone. Di me è rimasto tanto poco, che basta appena a fare una sola persona che si rispetti!» D’un tratto si accorse di una scatoletta di vetro che era sotto il tavolo. L’aprì e ci trovò un pasticcino sul quale era scritto con lettere di crema: «MANGIAMI» «Va bene» si disse Alice. « Lo mangerò e, se mi farà crescere, vuol dire che riuscirò a pigliar la chiave; se invece mi renderà ancora più piccola, passerò sotto la porta. In qualunque modo entrerò nel giardino e non m’importa di quello che succederà dopo».
Addentò un boccone e si chiese ansiosa: «Come divento, come divento?» Si teneva la mano sulla testa per sentire se la sua statura cresceva, ma restò molto sorpresa quando si accorse che era sempre la stessa.
Come tutti sanno, non succede mai niente di strano quando si mangia un pasticcino. Alice però s’era ormai abituata a vedere solo cose straordinarie: adesso che andava tutto nella maniera normale, se ne sentiva veramente delusa.
Intanto continuò a mangiare e poco dopo il pasticcino era finito.