Una fiaba dei fratelli Grim
Un uomo aveva un asino che per lunghi anni aveva fatto il dover suo, portando sacchi al mulino. Ora il povero animale era vecchio ed inabile al lavoro, cosicchè il suo padrone aveva formato il pensiero di levarlo di mezzo senza tanti riguardi, e si preparava un giorno o l’altro a fargli la festa, dandogli per ricompensa una bella mazzata sul capo. Ma il ciuco pare che fosse furbo e indovinasse il mal animo del padrone, e che cosa fece? Appena visto che per lui non tirava più buon vento come prima, scappò dalla stalla e prese la via che mena a Brema. Strada facendo pensava come avrebbe potuto campar la vita e risolvè di fare il suonatore ambulante. Cammina, cammina, trovò disteso in terra un can da caccia che ansava e non ne poteva più dalla stanchezza.
— Che cosa hai fatto, amico Bracco, per farti venire quel po’ d’affanno che ti fa star costì con la lingua penzoloni? – gli domandò.
— Caro Marco mio – rispose il cane – se tu sapessi! Quel cane del mio padrone mi voleva far ammazzare perchè son vecchio e ogni giorno sto peggio in gamba. Io me la sono svignata a tempo e ho corso tanto che mi par di scoppiare. Ma ora come farò a buscarmi un tozzo di pane, e un par d’ossi?
— Se è così, – riprese l’asino – ci possiamo dar la zampa! Vuoi fare come me? Io, vedi, vado a Brema e divento musicante. Se tu volessi venir via con me, si potrebbe trovare qualche buona scrittura. Io scelgo il liuto: tu potresti battere i timpani. – S’accordarono e ripresero la strada insieme. Non avevano fatto lungo cammino quando trovarono un gatto che aveva un muso da far pietà, tanto spirava uggia di lontano.
— Ohè! – gli disse l’asino – t’è forse fallito un bel colpo, che te ne stai là tutto imbroncito?
— Come vuoi che sia di buon umore se non si trova più un padrone a garbo, a questi lumi di luna? Ti devi figurare che la mia padrona mi voleva fare affogare e sai perchè? perchè dice che non son più buono a nulla! Fin che avevo i denti saldi ed ho chiappato topi è stata contenta e mi lisciava; adesso che sono vecchio e sto volontieri accanto alla stufa a far le fusa, dice che sono un mangiapane e mi vuol levar di mezzo. Sono stato più lesto di lei, però; ma ora sto qui e penso quale sia il miglior partito a cui appigliarmi per trovare ogni giorno qualche boccone…! – L’asino gli fece la stessa proposta che aveva fatto al cane.
— Vieni con noi! – gli disse. – Tu di far musica di notte te ne intendi. Se tu venissi a Brema, potresti fare buoni affari come suonatore ambulante. Che te ne pare?
Il gatto si grattò un pochino gli orecchi per riflettere meglio sulla proposta, poi si unì agli altri due ed insieme ripresero il loro viaggio.
Questi tre emigranti passarono davanti ad una fattoria, dove il gallo stava sul portico e cantava a squarciagola.
— Che ti venga la pipita! – gli disse l’asino, tanto per fare amicizia. – Sai che ci spacchi la testa con questi strilli? O che hai? buone notizie?
— Canto per annunziar il tempo bello, perchè domani è la festa della Madonna. Devi sapere che in questo giorno la santa Vergine lava le camicine del suo bambinello e le mette ad asciugare al sole. Del resto ho altro per il capo che l’allegria! Domani la massaia ha convitati ed ha detto alla cuoca che mi tiri il collo e mi butti in pentola! Faccio l’ultima cantatina per farmi coraggio.
— Ti credevo più furbo! – riprese l’asino, come il gallo ebbe finito il racconto delle sue miserie – e perchè non vieni con noi piuttosto?
— Dove andate? – domandò l’altro.
— A Brema a fare i suonatori ambulanti. Tu hai una gran bella voce di tenore e fra tutti metteremo insieme una orchestra magnifica!
Il gallo preferì questo progetto a quello della pentola, e si misero in viaggio tutti e quattro.
Ma la città di Brema era ancora assai lontana e una giornata non bastava per arrivarci, sicchè giunti la sera in un bosco, i bravi musicanti risolverono di pernottarvi. L’asino e il cane si accucciarono sotto un albero, il gatto si arrampicò su, fino ai primi rami; il gallo volò in vetta chè quello gli parve il posto più sicuro. Prima di addormentarsi, la piccola vedetta si guardò bene attorno, e come gli parve di scorgere in lontananza un chiarore che poteva essere una lanterna o un fuoco di camino, chiamò i compagni e fu tra loro tenuto consiglio. — Dobbiamo andare a vedere se ci fosse laggiù una casa dove riposarci meglio che qui? – dicevano i viaggiatori. – A questo albergo si spende poco, ma si è anche male alloggiati! – disse il ciuco con arguzia. E si misero in istrada, prendendo la direzione di quel lume lontano. A mano a mano che andavano, quello appariva più grande e più chiaro. Cammina, cammina, arrivarono ad una casa di briganti. Il ciuco, che era il più alto, avvicinò il muso alla finestra e dètte una guardatina dentro: gli altri aspettavano, affannando per l’impazienza di sapere che cosa ci fosse di nuovo. Egli guardava e non diceva nulla, gli altri lo tiravano per la coda, domandando sottovoce:
— Bigio, che cosa vedi?
— Per Bacco! – scappò a dire a un tratto l’asino muovendo le orecchie – c’è una bella tavola apparecchiata con fior di vivande e di vino… ci sono alcuni briganti in panciolle che se la godono.
— Buon per loro! – rispose il gallo – che bella occasione sarebbe per noialtri.
— Come si potrebbe fare per levar di mezzo quei mascalzoni e far noi una buona pappata? – sussurravano gli altri piano, piano, per paura d’essere scoperti. E si consigliavano, bisbigliando nel buio della notte. Finalmente il bandolo l’avevano trovato: il ciuco doveva appoggiare le zampe alla finestra, il cane saltargli sul dorso, il gatto sul cane, e il gallo volare al disopra di tutti e posarsi sulla testa del gatto. E così fecero. Quando furono tutti in posizione, ad un segnale convenuto, si dettero a strillare i primi accordi. L’asino ragliava a più non posso: il cane abbaiava con quanto fiato aveva: il gatto miagolava come se fosse stato al chiar di luna, su per qualche grondaia: e il gallo faceva dei chicchiricchì solenni come se avesse veduto spuntare il giorno. Dopo qualche battuta di questa musica d’inferno, balzarono tutti nella stanza, fracassando i vetri della finestra che caddero in bricioli facendo un rumore da sbalordire. I briganti a quel diavoleto inaspettato ebbero una paura da non si dire e corsero via nel bosco, credendo che qualche fantasma fosse venuto a castigarli.
Così i quattro viaggiatori affamati si sederono a tavola e mangiarono di gusto come se avessero dovuto far provvista per un mese. Quando ebbero finito, spensero il lume e si cercarono un posticino per dormire, ognuno secondo le sue abitudini. L’asino, tutto contento di trovare un po’ di concio, ci si buttò sopra come sulle piume: il cane si accovacciò dietro la porta: il gatto si acciambellò fra la cenere calda del focolare: il gallo fortunato anche lui, trovò un pollaio deserto e montato sopra una bacchetta vi si appollaiò: e siccome erano molto stanchi per gli strapazzi del viaggio, non tardarono ad addormentarsi.
I briganti, intanto, si erano un po’ rimessi dalla paura. Quando parve loro che tutto fosse tornato nella quiete di prima e videro che in casa il lume non c’era più, disse il capo-banda: — Bisogna convenire che non abbiamo fatto troppo bella figura! Perchè ci siamo lasciati canzonare così? – e domandò ad un compagno di andare in perlustrazione.
Il messo fa quanto gli è ordinato. Torna a casa, sta in orecchio, tutto gli pare in ordine e in silenzio. Si avvia in cucina a tastoni e visti gli occhi del gatto che gli paiono due tizzi rimasti accesi, va verso il fornello e vi accosta un fiammifero per accendere il lume. Ma, siccome il gatto non vuole scherzi, gli si avventa, soffiando e graffiandogli tutto il viso. Quello, più spaventato di prima, scappa e vuol uscire dall’usciolino di dietro, ma il cane lo agguanta per i polpacci e gli affonda le zanne nella carne; attraversa il cortile, inciampa nel mucchio di concio ed ecco il ciuco che gli assesta un bel paio di calci; intanto il gallo svegliato a quel patassìo grida a pieni polmoni: chicchiricchì, chicchiricchì.
Il povero brigante, senza fiato, col sudor ghiaccio e le gambe tremanti, corre dal capitano, portando la notizia che la loro casa se la sono presa le streghe perchè qualcuno gli ha soffiato fiamme sul viso e lo ha sfigurato a furia di graffi con certe unghie lunghe come non se ne sono mai viste di simili: un omaccio, appostato dietro la porta, gli ha lacerato le gambe con tanti coltelli: un mostro nero sdraiato nel cortile lo ha mezzo ammazzato con una clava di legno: e sul tetto c’è un giudice che bada a urlare: — Portatemi il birbante qui, portatemelo qui! – per cui egli se la è data a gambe.
Da quella sera i malfattori non ebbero più coraggio di tornare a casa loro; ed ai quattro musicanti piacque tanto quel soggiorno che non lo abbandonarono più. E quello di loro che ha raccontato questa bella storia ha ancora la bocca asciutta per aver tanto parlato.