Fiaba di Luigi Capuana
C’era una volta due carbonai, marito e moglie, che vivevano in mezzo a un bosco, in una capanna di legno. Lui abbatteva gli alberi, li scheggiava, e la moglie raccoglieva la legna, la portava nel posto e preparava la catasta, con la rocchina attorno per tenerla ben legata, e vi stendeva su la pelliccia con piote o piallacci. Il marito l’aiutava a far la bocca in alto alla catasta e i buchi per darle sfogo, e appiccava il foco.
Lavoravano così tutta l’annata, contenti di guadagnarsi il pane onestamente. Sarebbero stati felici se avessero avuto un figliolo.
E mentre la catasta ardeva, sdraiati per terra, essi facevano tanti bei castelli in aria:
– Quando avremo un bambino…
– O una bambina…
– Tu prenderai un garzone.
– E tu starai in bottega, in città.
– Tu condurrai il carbone…
– E tu lo venderai…
– Se sarà un bambino, gli faremo apprendere un altro mestiere.
– Se sarà una bambina…
Carbonaia, carbonaina,
Sotto il nero, pelle fina.
Tra piallacci e tra piote,
Voi ci avete una bella dote;
Ne faremo una Regina,
Carbonaia, carbonaina!
La moglie cantava cosi; le parole erano allegre, ma la cantilena era triste. E il marito ripigliava:
Carbonaio, carbonaino,
Sotto il nero, viso fino.
Tra piallacci e tra piote,
Tu ci avrai una bella dote;
Ne faremo un Principino,
Carbonaio, carbonaino!
Le parole erano allegre ma la cantilena era triste.
Di tanto in tanto, egli si alzava per osservare l’andamento del loco, e soggiungeva:
– La catasta arde bene.
Otto giorni dopo, tornando dalla città dov’era andato a vendere il carbone, il marito portava un grosso involto sotto il braccio.
– Che bel regalo mi hai comprato, marito mio?
– Indovina, moglie mia.
– Una veste di mussola?
– Ma che!
– Un coscetto di abbacchio?
– Ma che!
Lasciami vedere. Che sarà mai, se lo posi con tanta cautela sul letto?
– Ti ho portato un figliolino.
– Di cenci?
– Di carne e ossa. Guarda!
Era davvero un bel bambino roseo, biondo, che dormiva saporitamente, avvolto in pannilini finissimi, orlati di trine.
– E chi te l’ha dato?
– L’ho trovato tra l’erba, su l’orlo di un fosso.
– Sarà la nostra fortuna.
– Gli vorremo bene come a vero figliolo.
– Ma, per allattarlo?…
– Compreremo una capra.
La capra, in poco tempo, si affezionò talmente al bambino, che andava a porgergli i capezzoli assai meglio di una nutrice. La carbonaia glielo posava per terra su una coperta di lana e quella, appena lo sentiva vagire, accorreva e sceglieva la posizione più comoda perché il bambino poppasse. Ciò pareva un miracolo al marito e alla moglie, che, al veder crescere quella creaturina sana, vispa e bella, ripetevano ogni giorno:
– Sarà la nostra fortuna!
La donna ora, dovendo badare al bambino, non poteva più aiutare, come prima, il marito nel far la catasta, la rocchina per tenerla ben legata, né a stendervi su la pelliccia con piote e piallacci. Avevano preso un garzone.
Il bambino, cresciuto, era diventato un frugoletto. Correva qua, montava là, si arrampicava agli alberi, non stava cheto un momento. E spiccava certi salti, come una cavalletta; per questo, col nome di una di esse, lo chiamarono Saltacavalla. Più cresceva e più frugolo diventava.
– Dov’è Saltacavalla?
– Era qui un momento fa.
– Tu non lo tieni d’occhio abbastanza!
– E tu lo vizi con le carezze!
– È così buono!
– È così buffo certe volte!
– Ora appicco foco alla catasta.
– Ehi! Ehi| Adagino, ci sono io!
Dov’era andato ad accovacciarsi? In cima alla catasta, dentro la buca. Aveva preso di mira il garzone e gliene faceva di ogni specie. Gli nascondeva le scarpe nei mucchi di carbone; gli faceva sparire la camicia o i calzoni, che andava ad appendere in cima a un albero, dove non poteva arrampicarsi altri che lui. E dopo averlo fatto ammattire un bel pezzo, esclamava:
– Toh! Hanno messo bandiera bianca lassù!
La camicia sventolava proprio come una bandiera.
– Toh! C’è là, in alto, lo spauracchio pei passeri!
Erano i calzoni infilati a due rami. I carbonai, mal trattenendo le risa, non riuscivano a sgridarlo.
E Saltacavalla si faceva pregare un po’ prima di arrampicarsi lassù, e di restituire al garzone calzoni e camicia.
La donna gli lavava mani e faccia due, tre volte al giorno; ma dopo pochi minuti Saltacavalla era nero, mani e faccia, peggio di un piccolo carbonaio.
E se la mamma e il babbo – egli non sapeva che non fosse loro figlio – lo sgridavano, Saltacavalla faceva smorfie e gesti così strani, torcendo il muso, sgranando gli occhi, cavando fuori la lingua, che non era possibile rimanere seri; e tutto finiva in una grande risata. Rideva anche il garzone.
– È il nostro divertimento; lasciamolo fare.
– Poverino, non ha altri svaghi!
– Tieni, è la colazione. Sta’ là cheto, almeno mangiando.
Saltacavalla prendeva la fetta di pane e il companatico, un pezzetto di cacio o una mezza cipolla, e cominciava a masticare di mala voglia, quasi non avesse appetito. Tutt’a un tratto, dava un balzo, da quel Saltacavalla che era, e in un attimo eccolo in cima a una quercia, a dondolarsi su un ramo così sottile, che pareva gli si dovesse spezzar sotto.
– Quassù, sì, si mangia bene!
E faceva bocconi grossi, con tanti forti scoppiettii delle labbra, per mostrare che pappava di gusto.
– Scendi giù, ti può accadere una disgrazia!
– Intanto schiaccio un sonnellino!
Si stendeva tra i rami, incrociando le gambe, tenendosi aggrappato con le mani, e si addormentava. E la povera donna stava a vegliarlo a piè dell’albero, atterrita. Alla discesa, lo prendeva per un braccino, voleva sgridarlo, ma Saltacavalla le faceva una strana smorfia di scusa e la sgridata si mutava in uno scoppio di risa.
Or accadde che un giorno si trovò a passare nel bosco il Re con due persone del suo séguito. Avevano smarrito la strada. Vedendo che i carbonai stavano per dar fuoco alla catasta, scese da cavallo e volle assistere all’operazione.
Il Re era triste, cupo e non diceva una parola. Non dicevano una parola neppure quelli del séguito, mentre il carbonaio appiccava il foco.
Marito e moglie avevano capito che quei signori, vestiti così bene e con quei bei cavalli, dovevano essere personaggi di gran conto; la donna per ciò si tenera in disparte e tratteneva a sé Saltacavalla per impedirgli di farne qualcuna delle sue.
A un tratto, Saltacavalla scappa e va a piantarsi a gambe larghe, con le braccia dietro la schiena, in faccia al Re, squadrandolo da capo a piedi:
– Tu non sei carbonaio, è vero? Che cos’hai con quel viso scuro?
Il Re stese una mano per fargli una carezza.
Saltacavalla allungò il muso, cacciò fuori la lingua, sgranò tanto di occhi, e torse il collo a destra e a sinistra.
Un lieve sorriso spuntò su le labbra del Re, ma disparve subito.
– Me lo dài quel bastone lustro che porti al fianco?
Intendeva di dire la spada. Saltacavalla non aveva mai visto spade, e non sapeva come si chiamassero, né a che uso servissero. Il Re tirò fuori del fodero la spada e gliela mostrò per fargli capire che non era un bastone.
– È un coltello? Troppo lungo per affettare il pane! Non serve. Guarda il mio: costa due soldi.
E cavato di tasca il coltellino, Saltacavalla lo aperse e cominciò a far l’atto di tagliare una, due, tre fette di pane da una pagnotta, accompagnando il gesto con tali smorfie delle labbra, di tutto il viso, torcendo gli occhi, cacciando fuori a più riprese la lingua, che il Re sorrise e stese di nuovo la mano per fargli una carezza.
La povera donna era su le spine e accennava a Saltacavalla di smettere, minacciando di picchiarlo.
Come se gli avesse detto: – Fai peggio!
– È tuo quel cavallo bianco? Me lo dài?
E prima che il Re rispondesse, Saltacavalla era in sella, e picchiava con le calcagna sui fianchi dell’animale legato per le briglia al tronco di un albero. L’animale, abituato agli speroni, non si dava per inteso di quei colpettini e rimaneva tranquillo. Saltacavalla si arrabbiava, gridando: – Arri là! Arri là! – E faceva gesti così scomposti, così buffi, cacciando fuori la lingua, agitando le braccia e le gambe, che il Re, non ostante la sua serietà e il suo cattivo umore, fu preso da una vera convulsione di risa; non aveva mai riso tanto da un gran pezzo.
Quando poté frenarsi e parlare, disse ai carbonai:
– Affidatemi questo ragazzo. Lo porto via con me; ne farò un gran signore.
Neppure al Re in persona! risposero insieme marito e moglie. – Lo abbiamo allevato col nostro sangue.
– Non è vero! – gridò Saltacavalla. – Mi hanno detto loro stessi che mi ha allattato una capra.
Il Re fu preso da un nuovo accesso di risa. E quando poté frenarsi e parlare, disse.
– Vi farò ricchi, lui e voialtri. Questo bambino è stato per me il più gran medico del mondo: mi ha fatto ridere, ed erano anni ed anni che non ridevo. Verrète ad abitare nel mio palazzo. Sono il Re.
Marito e moglie sbalordirono. Si confondevano in iscuse.
– Perdono, Maestà! Chi poteva immaginare?
Ma tutto fini in una gran risata, perché Saltacavalla, sceso giù di sella, si buttava ai piedi del Re, ripetendo in modo buffo, stralunando gli occhi, cacciando fuori la lingua, picchiandosi il petto:
– Perdono, Maestà!… Chi poteva immaginare?
Cosi Saltacavalla e i carbonai, marito e moglie, furono accolti nel palazzo reale; i creduti genitori in un appartamentino a pian terreno, che aveva un orto; Saltacavalla in una camera vicina a quella del Re, che lo voleva davanti quasi in tutte le ore della giornata, anche quando teneva consiglio coi Ministri.
Gli aveva fatto cucire dal sarto di Corte un bel vestito da paggetto, e dal calzolaio di Corte un paio di borzacchini, che erano gli stivaletti allora in uso. Ma Saltacavalla vi si trovava dentro impacciato, quasi vestito e borzacchini gli impedissero i movimenti. A volte accadeva che il Re lo cercasse per le sale del palazzo senza riuscire a trovarlo. Fruga, chiama, all’ultimo scoprivano Saltacavalla in una terrazza, con indosso i vecchi cenci, scalzo, che correva da un punto all’altro, facendo salti, capriole, mosse buffe… E siccome lo cercava perché voleva divertirsi con lui, lo lasciava fare e rideva, rideva!
Un altro giorno, cerca, chiama: Saltacavalla era sparito. Scorrazzava in fondo al giardino, calpestando aiuole, stroncando rami di piante a cui si afferrava con balzi, riducendo tutto strappi il bel vestitino da paggetto, sgualcendo i borzacchini, facendosi beffe dei giardinieri che avrebbero voluto impedirgli di guastare le aiuole, di sciupare le piante… Saltacavalla si arrampicava lesto lesto in cima a un grand’albero e rispondeva impertinentemente:
– Se non viene qui Sua Maestà, non mi movo! Non mi movo!
E manteneva la parola. Ma prima di scendere faceva certe mosse, certe smorfie sempre nuove, che il Re si sbellicava dalle risa, e gli perdonava volentieri l’impertinenza.
Avanti dell’arrivo di Saltacavalla, il palazzo reale era triste, silenzioso come un cimitero. Il Re, oppresso da grave malinconia, viveva solitario, appartato nelle sue stanze, dove, a lunghi intervalli, riceveva i Ministri.
– Maestà, c’è da far questo, c’è da fare quest’altro. Vostra Maestà permetta…
Il Re accennava di sì col capo e non vedeva l’ora di levarseli di torno. I Ministri per ciò facevano quel che a loro pareva e piaceva. Da che il Re era divenuto un altro per virtù di Saltacavaila, spandeva il buon umore per tutto il palazzo e fuori. Si occupava di ogni cosa, e più non lasciava libertà ai Ministri di fare quel che a loro pareva e piaceva. Dava grandi feste, prendeva parte alle pubbliche cerimonie, accordava udienze anche alle più umili persone. E tutti, meno i Ministri, benedicevano Saltacavalla, che aveva operato quel miracolo.
I Ministri si riunirono un giorno segretamente:
– Saltacavalla è il nostro malanno!
– Quando sarà cresciuto con gli anni, il vero Ministro sarà lui.
– Il Re gli vuole così bene, che finirà col dichiararlo suo successore, vedrete!
– Non ci mancherebbe altro! Bisogna dar moglie a Sua Maestà!
– Dite bene, eccellenza!
E la prima volta che furono chiamati a Consiglio, il capo dei Ministri disse:
– Maestà, il popolo desidera l’erede del trono.
– Non sono vecchio, né malaticcio: ho ancora tempo da pensarci.
– Maestà, certe cose è meglio farle presto che tardi.
Picchia oggi, picchia domani, il Re si decise a dir di sì. Appena Saltacavalla seppe che il Re aveva mandato a chiedere in isposa la figlia del Re di Francia, si fece avanti stropicciandosi le mani dall’allegrezza:
– Maestà, il Re di Francia avrà certamente un’altra figlia anche per me.
– Che cosa vorresti farne.*
– Oh bella!… Sposarla.
– Sei troppo ragazzo per ora. Bada a crescere. Dopo…
Saltacavalla rimase pensoso, e in tutta la giornata non fece nessuna smorfia da fare ridere il Re.
Maestà, son cresciuto di un giorno!
– È pochino, Saltacavalla.
– Maestà, son cresciuto di otto giorni.
– È poco ancora, Saltacavalla!
Si avvicinava il mese in cui dovevano aver luogo le nozze del Re, e intanto nel palazzo reale non si faceva nessun preparativo.
Il Re, di giorno in giorno, ridiventava di cattivo umore.
– Perché non mi fai ridere più, Saltacavalla?
– Quando non rido io, non deve ridere nessuno.
– E perché tu non ridi più.*
– Perché non mi volete dar in moglie una figlia del Re di Francia.
– Bada a crescere… Dopo… Sono già cresciuto di due mesi!
E andava via, triste, a capo chino, più triste di lui.
Venne un ambasciatore del Re di Francia per stabilire, d’accordo, il giorno preciso delle nozze.
– Non sposo più! – rispose il Re.
– Maestà, questo è un affronto; ce ne darete ragione!
Non sposo più; prendetela come volete.
Il Re di Francia la prese malissimo: mandò a intimargli guerra, e invase subito il regno con numeroso esercito.
– Maestà, i nostri soldati sono stati disfatti!
– Mandate un altro esercito incontro al nemico.
Maestà, i nostri soldati sono stati nuovamente disfatti! Mandate un altro esercito!
Si presentò tutt’a un tratto Saltacavalla:
– Maestà, date il comando a me! Vi farò vedere io!
E faceva gesti di menar la sciabola in tondo e di tagliar teste:
– Ziff! Zaff! Ziff! Zaff!
Saltava da un punto all’altro della sala, menando pugni e calci, facendo smorfiacce, cavando la lingua in faccia ai Ministri, e tornando a far finta di sciabolare in tondo, di tagliar teste e d’infilare nemici:
– Ziff! Zaff! Ziff! Zaff!
Il Re cominciò a ridere a ridere… cominciarono a ridere a ridere anche i Ministri, mentre Saltacavalla continuava:
Ziff! Zaff! Ziff! Zaff!
Tutt’a un tratto il Re disse:
– Saltacavalla sia generalissimo.
– Maestà! Maestà! Con l’esercito nemico non si scherza!
Saltacavalla sia generalissimo!
Di fronte agli ordini del Re, i Ministri non fiatarono più.
– Tanto meglio! — pensarono.
– È l’unico mezzo di levarci Saltacavalla di torno!
Saltacavalla, tutto ringalluzzito, disse:
– Grazie, Maestà!
E rivolto ai Ministri, con aria spavalda, soggiunse:
– Mi si mandi subito il sarto di Corte!
Il sarto, sentito che si trattava del generalissimo, accorse in fretta. Vedendosi però davanti quel ragazzino di Saltacavalla, sospettò che qualcuno si fosse fatto beffa di lui. E stava per tornarsene addietro; ma intervenne il Re, e gli ordinò di eseguire ,quel che Saltacavalla desiderava.
– Voglio un paio di calzoni con la gamba destra metà bianca e metà nera, e la sinistra metà rossa e metà gialla…
– Sarà obbedito!
– Voglio una divisa metà azzurra e metà verde, con la manica verde dai lato azzurro e la manica azzurra dai lato verde.
– Sarà obbedito!
– Voglio un berretto a spicchi gialli, rossi, verdi, bianchi, azzurri, e un gran gallone d’oro dattorno.
– Sarà obbedito!
– Chiamatemi il calzolaio di Corte.
Il calzolaio, sentito che si trattava del generalissimo, accorse in fretta. Vedendosi però davanti quel ragazzino di Saltacavalla, sospettò anch’esso che qualcuno si fosse fatto beffa di lui, e stava per tornarsene addietro; ma intervenne il Re e gli ordinò di eseguire quel che Saltacavalla desiderava.
– Voglio un paio di borzacchini, quello di destra metà di pelle rossa e metà di pelle gialla; quello di sinistra, metà di pelle bianca e metà di pelle nera.
– Sarà obbedito!
– E che abbiano la punta aguzza, lunga così…
– Sarà obbedito!
Saltacavalla aveva pensato alla divisa, ai calzoni, ai berretto, ai borzacchini, ma né a spada, né a lancia, né ad arma di sorta alcuna. L’esercito era pronto a partire. Saltacavalla aveva già calzato i borzacchini, indossato la divisa, si era messo in capo il berretto a spicchi.
– Dove vai, Saltacavalla?
– Maestà, vado in cucina.
– Per far cosa, Saltacavaila?
– Vado a prendere una padella per scudo e uno spiedo per spada.
– Come ti piace, Saltacavalla.
E si mise a capo dell’esercito con la padella e lo spiedo in ispalla. Cosa strana! Nessuno rideva vedendolo vestito ed armato a quel modo.
Prima di mettersi in marcia, egli disse ai soldati:
– Quando darò un colpo sul fondo della padella, voi dovete fermarvi; quando ne darò due, precipitatevi all’assalto; quando ne darò tre, cessate di combattere. Chi non mi obbedisce, peggio per lui.
Cammina, cammina, arrivarono in faccia al nemico. Saltacavalla diè un colpo sul fondo della padella, e i suoi soldati si fermarono. Egli invece andò avanti con certe mosse così buffe, torcendo le labbra, sgranando gli occhi, cavando fuori la lingua, al suo solito, che i nemici cominciarono a ridere, a ridere, a ridere, contorcendosi, lasciando cascare giù le armi, tenendosi stretta la pancia, rotolandosi per terra…
Allora Saltacavalla dà due colpi sui fondo della padella tan! tan! – e i suoi soldati si precipitano all’assalto e fanno strage dei nemici, che si lasciano scannare ridendo, incapaci di opporre la minima resistenza.
Quando Saltacavaila diè i tre colpi: tan! tan! tan! dei soldati nemici non ne rimaneva vivo neppure uno.
Ma essi erano l’avanguardia. Saltacavalla ordinò di rimettersi in marcia, e, dopo poche ore di cammino, ecco il grosso dell’esercito nemico che non s’aspettava di vedersi arrivare addosso l’avversario.
Tan!
E i soldati di Saltacavalla si fermarono. E lui si fece avanti con mosse buffe, torcendo le labbra, sgranando gli occhi, cavando fuori la lingua a riprese. E i nemici lo guardano stupiti e poi cominciano a ridere a ridere, contorcendosi, lasciando cascare giù le armi, tenendosi stretta la pancia, rotolandosi per terra…
Tan! tan!
I soldati di Saltacavalla si precipitano all’assalto, e fanno un’altra strage dei nemici, che si lasciano scannare ridendo, incapaci di opporre la minima resistenza.
Tan! tan! tan!
Rimanevano appena un centinaio di uomini che Saltacavalla voleva far prigionieri, e condurli, legati a due a due, al cospetto del suo Re. Ma parecchi dei suoi, inebriati dalla vittoria, non cessarono di combattere dopo i tre colpi, e n’ebbero la peggio. Quell’ultimo centinaio di uomini non rise più, si diè a menar le mani, e fece pagar cara la disobbedienza a coloro.
Dovette intervenire Saltacavalla, e fece prodigi di valore. Accoppava con la padella, infilzava con lo spiedo, e in pochi minuti di quel centinaio di nemici non ne rimaneva in piedi neppure uno. Quando si sparse la notizia che Saltacavalla tornava vittorioso, il popolo si rovesciò per le vie, e migliaia di persone gli uscirono incontro fuori le porte della città.
Il Re gongolava dalla gioia; ma i Ministri, diventati in viso più verdi di limoni, doverono fingere letizia. Se, col ritorno di Saltacavalla sano e salvo, Sua Maestà riprendeva a ridere e a star di buon umore, la loro cuccagna era finita!
Affacciati a un balcone del palazzo reale, ai lati di Sua Maestà, essi si stupivano di non sentire applausi o gridi di evviva ma un rumore indefinibile che diveniva più forte, di mano in mano che pareva si venisse accostando.
Erano risate. Alla vista di Saltacavalla, vestito e armato a quel modo, che, dall’alto del suo cavallo di generalissimo, faceva smorfie, stralunava gli occhi, allungava le labbra, cacciava fuori la lingua, e dondolava la testa come un burattino, per ringraziare della festosa accoglienza, il popolo aveva dovuto cessare di applaudire, e rideva, rideva, rideva; e l’onda della risata si propagava rumorosa di mano in mano che Saltacavalla si avanzava alla testa dell’esercito vittorioso. Al clamore delle risate del popolo sotto il palazzo reale si unì ben tosto lo scoppio di quelle del Re e dei Ministri.
I Ministri, specialmente, si contorcevano, si davano gomitate e spintoni, si buttavano gli uni addosso agli altri, senza punto riguardo alla presenza del Re.
Il Re rideva, si, ma non con quella violenza. I Ministri erano diventati paonazzi in viso, non ne potevano più, soffocavano, e, rientrati nel salone, si buttarono per terra, rotolandosi in convulsioni di risa, poi giacquero. Erano morti!
Il Re, paventando che accadesse qualcosa di simile tra la folla, scese incontro a Saltacavalla, che saltò giù di sella, gli depose ai piedi la padella e lo spiedo, e piegò un ginocchio, ma con un gesto così buffo, che le risate della gente raddoppiarono.
– Basta, Saltacavalla! Basta! – esclamò il Re. – Vuoi tu farli morire dalle risa, come sono morti i Ministri?
– Ah! – fece Saltacavalla. – Poverini! Poverini!
E finse di scoppiare in pianto dirotto.
Allora, in un attimo, tutta la folla stipata davanti al palazzo reale passò dal riso al pianto. Si udivano singhiozzi ed esclamazioni: – Poverini! Poverini! – E le lacrime venivano giù a torrenti. Scoppiò a piangere anche il Re.
Basta, Saltacavalla! Basta! – esclamò il Re.
– Saltacavalla fece un gesto di stizza.
– Basta, se faccio ridere!… Basta, se faccio piangere! Il meglio è che me ne vada!
– No, Saltacavalla! No!
Ma il Re ebbe un bel gridare – No! No! –
Saltacavalla, in quattro salti, era già sparito.
Il Re capì troppo tardi che quel pianto era anche esso una specie di risata.
Attese, attese che Saltacavalla ritornasse; ma Saltacavalla non si fece più vedere.
Il Re mandò a chiamare i carbonai marito e moglie che vivevano tranquillamente nell’appartamento a pian terreno, loro assegnato:
– Sapete niente di vostro figlio?
Quei due credettero che Saltacavalla avesse fatto qualche cattiva azione e che il Re volesse prendersela con loro.
– Maestà, perdono!… – disse il marito. – Ma Saltacavalla non era nostro figlio! Io lo trovai un giorno tra l’erba su l’orlo di un fosso, e lo facemmo allattare da una capra!
– Era involtato – soggiunse la moglie – in pannilini finissimi, orlati di trine.
Il Re volle vederli. Non aveva mai visto niente di così fine e di così bello. Ma non poté capire altro.
E nessuno ha mai saputo chi era Saltacavalla, e da quel giorno in poi non se n’è avuto più notizia! Peccato! Se tornasse ora che si ride tanto di rado!
Stretta la foglia, larga la via,
Dite la vostra, che ho detto la mia.