Fiaba di Luigi Capuana
C’era una volta un Re e una Regina. La Regina era incinta.
Un giorno passò una di quelle zingare che van dicendo la buona ventura, e il Re la fece chiamare:
– Che partorirà la Regina?
– Maestà, un serpente.
Quelli trasecolarono.
– E che dovevano farne? Ammazzarlo appena nato? Allevarlo?
– Dovevano allevarlo.
La povera Regina dette in un pianto dirotto:
– Chi avrebbe allattato una bestia così schifosa? Lei sarebbe morta dal terrore! E poi, se le mordeva il seno?
– Maestà, non abbiate paura. Avrà un dente soltanto, un dente d’oro.
Infatti la Regina partorì un bel serpentello verde-nero, che subito, appena nato, sguizzò di mano alla levatrice, attaccossi alla poppa della mamma e si mise a poppare.
Quando fu addormentato, il Re gli aperse la bocca e vide che avea davvero un dente soltanto, un dente d’oro. Però, siccome non voleva che quella loro disgrazia si risapesse, fece dire che la Regina avea partorito una bella bimba, ed era stata chiamata Serpentina.
Serpentina cresceva rapidamente, e quando apriva la bocca, il suo dente d’oro straluccicava.
Un giorno ripassò quella zingara, e il Re la fece chiamare:
– Dimmi la ventura di Serpentina.
– Buona o cattiva, Maestà?
– Buona o cattiva.
La zingara prese in mano la coda di Serpentina e si messe ad osservarla attentamente. Scrollava la testa.
– Zingara, che cosa vedi da farti scrollare la testa?
– Maestà, veggo guai!
– E non c’è rimedio?
– Maestà, bisognerebbe interrogare una più sapiente di me: la Fata gobba.
– O dove trovare questa Fata gobba?
– Prendete del pane e del vino per otto giorni e camminate sempre diritto, badiamo! Senza voltarvi in dietro. All’ottavo giorno vi troverete avanti a una grotta: la Fata gobba abita lì.
– Va bene, – disse il Re – partirò domani.
Prese le provviste per otto giorni, e si mise in cammino. Quando fu a mezza strada:
– Maestà! Maestà!
Stava per voltarsi, ma si ricordò della raccomandazione della zingara, e tirò diritto.
Un altro giorno, ecco dietro a lui un urlo di creatura umana:
– Ahi! M’ammazzano! Ahi!
Il Re si fermò, irresoluto; quel grido strappava l’anima!… E stava per voltarsi; ma si ricordò della raccomandazione, e tirò diritto.
Un altro giorno, ecco alle sue spalle un gran rumore, come di cavalli che corrano di galoppo.
– Bada! Bada!
Spaventato, stava per voltarsi; ma si ricordò della raccomandazione della zingara, e tirò diritto.
Giunto davanti alla grotta, cominciò a chiamare:
– Fata gobba! Fata gobba!
– Gobbo sarai te! – rispose una voce.
E il povero Re, sentitosi un po’ di peso sulle spalle, si tastò. Gli era proprio spuntata la gobba.
– Ed ora che fare? Come tornare indietro con quella mostruosità?
Risolse di tornar di notte, perché nessuno lo vedesse. La Regina, accortasi di quel gonfiore sulle spalle, gli domandò:
– Maestà, che portate addosso?
– Porto la mia disgrazia!
E raccontò com’era andata.
La Regina risolse di tentar lei:
– Fra loro donne si sarebbero intese meglio.
Fece le sue provviste di pane e vino per otto giorni, e partì.
A metà strada:
– Maestà! Maestà!
Lei, sbadatamente, si volta, e si trova tornata al punto d’onde era partita.
– Pazienza! Ricomincerò.
La seconda volta, più in là di mezza strada, ecco alle sue spalle un gran rumore, come di cavalli che corrano di galoppo:
– Bada! Bada!
Presa dallo spavento, si volta, e si trova di nuovo al punto d’onde era partita.
Allora, da scaltra, disse al Re:
– Maestà, turatemi le orecchie col cotone e versatevi su della cera. Così non sentirò nulla, e potrò arrivare dalla Fata gobba: altrimenti non ci sarà verso.
Il Re le turò le orecchie a quel modo, e lei partì.
Giunta davanti la grotta, si sturò le orecchie, e picchiò. Picchia, ripicchia, non rispondeva nessuno. Lei non voleva chiamare, e dava all’uscio col bastone, a due mani.
– Chi è? – urlò finalmente una voce – Chi cercate?
– Son io: cerco la Fata.
– Quale Fata? Delle Fate ce n’è tante!
– La Fata gobba.
Le scappò di bocca.
– Gobba sarai tu!
La Regina si tastò subito le spalle. Le era proprio spuntata la gobba.
Tornò di notte, per non esser veduta; e il Re, prima di ogni cosa, le guardò dietro.
– Maestà, che portate addosso?
– Porto la mia disgrazia!
E raccontò com’era andata.
– E tutto questo per Serpentina! Schiacciamogli la testa! La mala fortuna ci vien per lei.
Il Re non sapea risolversi:
– Non era sangue loro?
– Farò di mio capo – disse fra sé la Regina.
E, di nascosto al Re, chiamò una guardia di palazzo:
– Prendi questa cassettina e vattene in un bosco. Quando sarai lì, farai una catasta di legna, ve la metterai su e darai fuoco. Finché non sia consumata, non dovrai tornare indietro.
– Maestà, sarà fatto.
Intanto il Re ordinava gli si chiamasse la zingara:
– Dimmi la ventura di Serpentina.
– Buona o cattiva, Maestà?
– Buona o cattiva.
– Maestà, Serpentina corre pericolo di morte:
E se muore Serpentina,
Tutto il regno va in rovina.
– Che pericolo può correre nelle stanze reali?
– Maestà, non è più lì.
Quando il Re apprese quello che sua moglie avea fatto, cominciò a strapparsi i capelli:
– La loro rovina era compiuta. Ah! Povera Serpentina, dove tu sei?
E una voce lontana, lontana:
– Maestà, sono nel bosco.
– E che tu fai?
– Sento strani rumori.
Il Re ordinò:
– Mi si selli il miglior cavallo della mia scuderia!
Montò a cavallo e via, come un fulmine, per la strada del bosco. Di tanto in tanto si fermava:
– Serpentina, dove tu sei?
– Maestà, in mezzo al bosco.
Ora la voce era più vicina.
– E che tu fai?
– Maestà, ho troppo caldo.
Il Re conficcava gli sproni nei fianchi del cavallo: avrebbe voluto che volasse. Ma quando fu in mezzo al bosco, vide una gran fiamma:
– Serpentina, dove tu sei?
– Maestà, in mezzo al bosco.
La voce era vicinissima.
– E che tu fai?
– Pelle nuova, Maestà!
Il Re corse alla catasta in fiamme, e senza curar di scottarsi, tirò la cassettina fuori della brace. L’aperse in fretta e furia, e vide scappar fuori una ragazza di belle forme; se non che avea la pelle tutta squamosa, come quella d’un serpente.
– Troppa fretta, Maestà! Ora non potrò più maritarmi!
Serpentina non avea avuto il tempo di far pelle nuova. E dava in un dirotto pianto; era inconsolabile:
– Lasciatemi qui sola. Anderò dalla Fata gobba.
Non potendola persuadere altrimenti, il Re l’abbandonò in mezzo al bosco e tornò al palazzo reale.
Ma Serpentina, gira di qua, gira di là, non trovava l’uscita. Vide uno scarafaggio:
– Scarafaggio, bel scarafaggio! Se mi conduci dalla Fata gobba, ti faccio un magnifico regalo.
– Non la conosco.
E tirò via.
Più in là, vide un topolino:
– Topolino, bel topolino! Se mi conduci dalla Fata gobba, ti faccio un magnifico regalo.
– Non la conosco.
E tirò via.
Più in là ancora, vide un usignuolo in cima a un albero:
– Usignuolo, bell’usignuolo! Se mi conduci dalla Fata gobba, ti faccio un magnifico regalo.
– Mi dispiace, ma non posso. Aspetto la bella dal dente d’oro che deve passare di qui.
– Usignuolo, bell’usignuolo! Sono io la bella dal dente d’oro.
E mostrò il dente.
– O Reginotta mia! Son tant’anni che t’aspetto.
L’usignuolo divenne, tutt’a un tratto, il più bel giovane che si fosse mai visto, la prese per mano e la condusse fuor del bosco.
Giunti davanti alla grotta, il bel giovane picchiò.
– Chi siete?
– Son io e Serpentina.
– Chi volete?
– La Fata regina.
La grotta si spalancò, e si vide il gran palazzo della Fata gobba; ma bisognava dirle Fata regina; se no, se l’avea a male.
– Ben venuta, figliuola mia! T’aspettavo da un pezzo. Questo giovine è figlio d’un regnante. Una Maga gli aveva fatto l’incantesimo, e per romperlo ci voleva la ragazza dal dente d’oro. Ora dovrete sposarvi.
La Reginotta, con quella pelle squamosa, era un orrore. La Fata gobba cominciò a strusciarla da capo a piedi, e in poco d’ora la mondò, in guisa che non pareva più lei. Era così bella, che abbagliava.
La Regina, come intese che Serpentina stava per tornare, montò sulle furie:
– Se vien lei, partirò io! È la nostra cattiva sorte!
Ma, saputo che quella recava l’unguento da far sparire le gobbe, le andò incontro col Re e con tutta la corte. Fecero grandi feste, e vissero tutti felici e contenti.
E noi citrulli ci nettiamo i denti.