Fiaba di Luigi Capuana
C’era una volta un poveraccio che viveva facendo da corriere. Lo spedivano qua, lo spedivano là; e perché era lesto di gambe, lo chiamavano Saetta. Lo pagavano male; certe volte non lo pagavano affatto col pretesto che, non avendo recapitato in tempo una lettera, aveva mandato a monte un affare importante. Non voleva dire! Purché non perissero di fame lui e la moglie, non rifiutava di tornar a servire anche coloro che non lo avevano pagato.
Nella sua famiglia erano stati tutti corrieri, di padre in figlio; corriere l’avo, corriere il nonno, corriere il suo babbo: e Saetta pensava con pena che, dopo cinque anni di matrimonio, non aveva ancora un figliuolo da fare il corriere anche lui, quando sarebbe cresciuto.
Un giorno gli si presentò un vecchio, nano e sbilenco, con naso enorme a tromba, e occhi piccini piccini, ma che pareva sprizzassero scintille. Saetta n’ebbe paura.
– Porterai questo scatolino dove c’è scritto su, e riporterai la ricevuta. Una moneta d’oro all’andata, e una al ritorno. Sei contento?
Altro se era contento! Non si ricordava in vita sua di esser mai stato pagato profumatamente. Si mise, come suol dirsi, le gambe al collo, e via, da vera Saetta.
E giunto a metà strada, cominciò a sentir rimescolare qualcosa dentro lo scatolino, e una vocina sottile sottile, che pregava:
– Non mi portare! Non mi portare!
Si fermò.
Qualcosa continuava ad agitarsi dentro lo scatolino, e la vocina sottile sottile tornava a insistere:
– Non mi portare! Non mi portare!
Riprese il cammino. Era stato comandato, era stato pagato: voleva fare il suo dovere… Intanto, quella vocina sottile sottile, che pareva impregnata di pianto, gli faceva tremare il cuore e vacillare le gambe. Accostò lo scatolino all’orecchio, per udir meglio:
– Non mi portare! Non mi portare!
– E l’altro che dirà? Ha gli occhi cattivi quel nano!
– Gli risponderai: l’ho consegnato.
– Vuole la ricevuta, se no, non mi regala la moneta d’oro. Per me è una ricchezza.
– La ricevuta la farò io.
– E tu chi sei?
– Sono il Reuccio di Spagna. Il nano mi ha fatto l’incanto perché non ho voluto sposare la sua figliuola gobba, muta e sorda. Se tu consegni questo scatolino al Mago a cui è diretto, penerò dieci anni, schiavo di lui. Non mi portare! Non mi portare!
Saetta sentì intenerirsi. Pensò pure, poveraccio, che il Reuccio di Spagna lo avrebbe ricompensato meglio del nano.
Così faceva un’opera buona e ne ricavava un bel guadagno.
– Come liberarti?
– Apri lo scatolino.
– È suggellato e chiuso a chiave.
– Dovrai dire:
Male e malanno a chi ti serrò!
Male e malanno a chi ti suggellò!
Suggello strappati!
Serratura schiantati!
E picchierai su lo scatolino con un ciottolo, senza tremare.
Saetta prese un ciottolo aguzzo, posò lo scatolino per terra, e con voce fioca dalla paura ripeté:
– Male e malanno a chi ti serrò!
Male e malanno a chi ti suggellò!
Suggello schiantati!
Serratura, strappati!
– Hai sbagliato! Ora non potrai più! La mia disgrazia ha voluto così!
Non aveva sbagliato a posta, ma quasi quasi fu contento dello sbaglio. Dentro lo scatolino non si agitò più niente, e la vocina sottile sottile, impregnata di pianto, tacque.
Saetta riprese la strada a corsa per rifarsi del tempo perduto, e, prima che il sole tramontasse, fu dietro l’uscio della grotta del Mago indicata dalla soprascritta.
– Buon per te che non ti sei lasciato tentare! – gli disse il Mago con un vocione grosso, cavernoso.
– Fatemi la ricevuta.
– Mangia, bevi, ristorati. La ricevuta è questa qui.
E gli diè un ovicino che sembrava uovo di piccione.
Se lo mise in tasca e ripartì.
Il nano lo attendeva davanti alla porta di casa.
– Ahi Saetta! Saetta! Male e malanno, eh? Fortuna che hai sbagliato!
Il pover’uomo gli si buttò ai piedi, domandando perdono.
– Tieni quest’ovo: è la tua paga. Val più della moneta d’oro che ti ho promessa. Mettilo a covare nel nido dei piccioni allevati da tua moglie. Mi ringrazierete tra meno di un mese.
– Un figliuolo?
– Un figliuolo più Saetta di te.
E rise in un certo modo che Saetta ne fu turbato. Pure la speranza di avere, finalmente, un figliuolo, lo spinse ad eseguire quel che il nano gli aveva consigliato.
– Bada, moglie mia: sostituiscilo a uno degli uovi, senza che la colomba se ne accorga.
La donna alzò le spalle, incredula; ma la speranza di avere, finalmente, un figliuolo, la indusse a tentare la prova.
E attesero, moglie e marito, incerti se il nano si fosse divertito a canzonarli.
Si sentirono peggio che canzonati quando dall’uovo uscì una piccola tartaruga che aveva, invece della solita testa, una minuscola testina di bambino, e la protendeva fuori dal guscio, con la boccuccia aperta, avida di nutrimento.
– Ah, quel nanaccio infame! Vo a scaraventargliela in viso!
La moglie lo trattenne.
– Meglio questo che niente! Chi sa? Quando sarà cresciuto…
La tartarughina si moveva lentamente, portando attorno con le quattro zampette il gusciolino che s’induriva ogni giorno più. La nutrivano con midolla di pane inzuppata nel latte, con un po’ d’erba cotta, triturata. Quel visetto di bambino, grosso quanto una nocciola, sorrideva graziosamente quando la mamma lo accarezzava con un dito, dopo di avergli dato da mangiare, che i genitori già gli volevano bene quanto a un figliuolo in carne e ossa.
L’uomo però non sapeva darsi pace.
– A lui, Saetta, un figliuolino tartaruga! Lo scherzo non poteva essere peggiore! Se il nano mi capita tra i piedi!
– Non cimentarti… Meglio questo che niente! – lo confortava la moglie.
Tartarughino – lo chiamavano- cresceva rapidamente. In sei mesi era diventato grosso quanto un tacchino; e quando cacciava fuori dal guscio la testa e il collo, si sarebbe detto che fossero quelli di un bambino ficcatosi colà per ischerzo.
Ma che pena vederlo chiuso là dentro!
– A lui, Saetta, un figliuolo tartaruga!
Non se ne dava pace, il povero padre.
Un giorno accadde che mentre egli era partito per una commissione, venne una persona che aveva bisogno di spedire un corriere di urgenza; avrebbe pagato qualunque somma.
– Vado io! – disse Tartarughino. – Legatemi la lettera al guscio. Vado e torno sùbito.
E si mise a piangere perché neppure sua mamma lo credeva capace di fare la commissione.
Quell’uomo restava là in attesa di Saetta. Disse alla donna:
– Contentiamolo!
E gli legarono la lettera sul guscio. Tartarughino si mosse lentamente, infilò la porta e, via, come un lampo. La mamma e quell’uomo non credevano ai loro occhi. Avanti che fossero compiutamente riavuti dalla sorpresa, Tartarughino era di ritorno con la risposta legata sul guscio.
Quando, più tardi, giunse Saetta, non riusciva a persuadersi che sua moglie non gli raccontasse una fandonia ma la pura verità: Tartarughino era più Saetta di lui! Sì, sì: più Saetta di lui!
Ora tutti volevano provare quel portento. Inventavano pretesti di commissioni, pur di veder partire Tartarughino. Arrivava su la soglia della porta e, che è che non è, spariva come un lampo. Ritornava allo stesso modo, senza che nessuno potesse accorgersi come e d’onde arrivasse. Ma che pena vederlo chiuso dentro quel guscio! Ora il povero padre non se ne dava pace più che mal!
Ed ecco, un giorno, presentarsi un bel giovane, vestito tutto di broccato con pizzi alle maniche, gran cappello di feltro ornato di magnifiche piume bianche e nere in testa, e spadino al fianco con l’impugnatura tempestata di brillanti.
– Dov’è Tartarughino?
– È andato via per una commissione; non può tardar molto a tornare.
Il bel giovane si tolse il cappello, si sedé e guardava attorno per la misera cameretta. Alle pareti stavano appesi una sega, un martello, un’accetta e altri arnesi simili.
– Eccolo! disse la madre.
Tartarughino entrò movendo lentamente le quattro zampe. Arrivava in quel punto anche Saetta.
Il bel giovane non gli diè tempo di domandargli che servigio volesse. Rizzatosi di botto da sedere, staccata rapidamente dalla parete la scure, cominciò a dar fendenti sul guscio di Tartarughino facendolo volare in pezzi per la stanza.
Saetta e sua moglie ebbero appena tempo di cacciar fuori un urlo di orrore. L’urlo si mutò subito in un grido di gioia appena videro saltare in piedi un bellissimo ragazzo di dieci anni, cioè, Tartarughino liberato dall’involucro osseo del guscio.
– Sono il Reuccio di Spagna… Vi ricordate, Saetta?
Male e malanno a chi ti serrò!
Male e malanno a chi ti suggellò!
Suggello strappati!
Serratura, schiantati!
Se sbagliaste, non fu colpa vostra. Vi sono rimasto gratissimo della buona intenzione. Il mio incanto è finito, e sono venuto a posta per sciogliere quello di vostro figlio, opera del malefico nano. Fa’ male e pensaci. Fa’ bene e scordatene! C’è sempre qualcuno che se ne ricorda. Non sono tutti ingrati a questo mondo!
– Infatti!… Infatti!…
Marito e moglie non sapevano balbettar altro mentre Tartarughino baciava la mano del suo liberatore.
La fiaba è finita
Leccatevi le dita!