Fiaba di Luigi Capuana
C’era una volta un sarto, che campava la vita mettendo toppe e rivoltando vestiti usati.
Nella sua botteguccia ci si vedeva appena; per ciò lavorava sempre davanti la porta, con gli occhiali sul naso; e, tirando l’ago, canterellava:
Il mal tempo dee passare,
Il bel tempo dee venire.
Zun! Zun! Zun!
Aveva una figliuola bella quanto il sole, ma senza braccia, ed era la sua disperazione. Le vicine lo aiutavano: oggi una, domani un’altra, si prestavano a vestire la ragazza, a pettinarla, a lavarle la faccia; egli doveva imboccarla. A ogni boccone, brontolava:
– Chi non ha braccia, non dovrebbe aver bocca!
La ragazza, invece di arrabbiarsi per questo continuo brontolìo, si metteva a ridere e rispondeva:
– Dovevate farmi le braccia e non la bocca. La colpa è vostra.
– Hai ragione.
E il vecchio riprendeva a lavorare, canticchiando:
Il mal tempo dee passare,
Il bel tempo dee venire.
Zun! Zun! Zun!
Invece il cattivo tempo peggiorò: gli venne meno la vista, gli occhiali non lo aiutarono più; e gli avventori vedendo quei puntacci da orbo, che facevano parere più brutte fin le toppe, non ne vollero più sapere di lui e del suo lavoro.
– Figliuola mia, come faremo?
– Faremo la volontà di Dio.
Il bel tempo dee venire.
Per abitudine, ogni mattina il sarto, aperta la botteguccia, si metteva a sedere davanti la porta con le mani in mano, aspettando gli avventori che non comparivano, e al suo solito canterellava.
Un giorno passa una signora, che vicino a lui si china e raccatta da terra un ago lucente:
– Quest’ago è vostro, buon uomo.
– Grazie. Che debbo farne? A cucire non ci vedo più.
La ragazza, sentendo parlare, s’era affacciata alla porta.
– Prendetelo voi, bella figliuola.
– Non ho braccia, signora mia.
– Ve l’appunto sul busto; è un buon ago.
Il vecchio disse:
– Biscotto a chi non ha denti. Così va il mondo!
– Allegro, compare!
Il mal tempo se n’è andato,
Il bel tempo è già arrivato.
Zun! Zun! Zun!
La signora, ridendo, scantonò e sparì.
Poco dopo, ecco un avventore con in mano una giacca vecchia, tutta strappi e buchi:
– Rattoppatemi questa qui. Vi pago avanti; ecco uno scudo. Verrò a riprenderla domani.
Il sarto, vedendosi in mano quello scudo, che arrivava a proposito, non ebbe animo di rispondergli: – A cucire non ci vedo più. – Rimase lì col naso all’aria, stupito della buona fortuna.
Andò subito a fare un po’ di spesa, e poi si mise a cuocere la minestra, rimuginando le parole dello sconosciuto: Verrò a riprenderla domani.
– Figliuola mia, e come faremo domani?
– Da qui a domani c’è ventiquattr’ore.
Finito di desinare, la ragazza guarda per caso la giacca e dà un grido di sorpresa: la giacca era già bell’e rattoppata, e così bene, che pareva quasi nuova. In una manica c’era appuntato un ago.
– È l’ago della signora!
Infatti l’ago non era più al posto dove la signora lo aveva messo.
– Zitta, figliuola; quest’ago è la nostra fortuna.
Il padrone della giacca venne a riprenderla, e rimase contentissimo del lavoro. Chiunque vedeva quella raccomodatura, restava meravigliato.
E gli avventori tornarono ad affluire alla botteguccla del sarto. Sul banco c’era sempre una montagna di vestiti vecchi, così stracciati che neppure il cenciaiolo li avrebbe voluti. Il sarto se ne stava tutta la giornata seduto davanti la porta con le mani in mano canterellando:
– Il mal tempo se n’è andato,
Il bel tempo è già arrivato.
Zun! Zun! Zun!
– Sarto, e il lavoro chi lo fa?
– Lo faccio io.
– Stando con le mani in mano?
– Stando con le mani in mano.
Verso sera gli avventori tornavano e trovavano tutto bell’e allestito. Le raccomodature erano fatte così bene, che quei vestiti vecchi parevano quasi nuovi.
– Sarto, e il lavoro chi l’ha fatto?
– L’ho fatto io.
– Stando con le mani in mano?
– Stando con le mani in mano.
Un giorno il Reuccio, passando a cavallo insieme con uno scudiero davanti la bottega del sarto, vide la ragazza che stava a sedere accanto al padre, e rimase incantato di quella bellezza.
– Ha un aspetto da Regina!
– Ma è senza braccia, Reuccio!
– Peccato!
Ci ripensò tutta la notte, e il giorno appresso volle rivederla. Passò a cavallo, insieme con lo scudiero, e rimase più incantato del giorno avanti.
– Ha un aspetto da Regina. Peccato non abbia le braccia!
Ci ripensò tutta la notte, e il giorno appresso volle rivederla. Giunto davanti la bottega, sentendo canterellare il sarto, fermò il cavallo:
– Che canterellate, buon uomo?
– Il mal tempo se n’è andato,
Il bel tempo è già arrivato.
Zun! Zun! Zun!
Il Reuccio intanto teneva fissi gli occhi su la ragazza. Il sarto, che non sapeva chi egli fosse, lo sgridò:
– Eh, amico! Che guardate?
– Guardo vostra figlia, che è più bella del sole.
– Se fosse più bella del sole, rimarreste accecato.
– Ahi! Ahi!
Il Reuccio portò le mani agli occhi; a quelle parole del sarto gli occhi gli s’erano seccati.
Lo scudiero condusse per mano il Reuccio cieco a palazzo, e raccontò quello ch’era accaduto.
Il Re e la Regina montarono in furore contro il sarto:
– Vecchio stregone! Arrestatelo e conducetelo qui.
Lo legarono peggio d’un ladro e lo condussero innanzi al Re.
– Maestà, io non ci ho colpa!
– Vecchio stregone! O rendi la vista al Reuccio, o ti fo arrostire vivo vivo!
Il povero sarto, dallo spavento, era già mezzo morto.
– Maestà, io non ci ho colpa!
– Ti do tre giorni di tempo.
E lo fece chiudere in una prigione dello stesso palazzo reale.
Ogni. mattina il Re andava a trovarlo, e dallo sportellino dell’uscio gli diceva:
– O rendi la vista al Reuccio, o ti fo arrostire vivo vivo. È passato un giorno.
– O rendi la vista al Reuccio, o ti fo arrostire vivo vivo. Son passati due giorni.
Il povero sarto non rispondeva; si struggeva in lagrime, pensando alla figliuola senza braccia, di cui non sapeva niente da più giorni, e che sarebbe rimasta sola al mondo in balìa della cattiva sorte:
– Figliuola mia sventurata!
E il Re, dallo sportellino dell’uscio:
– O rendi la vista al Reuccio, o ti fo arrostire vivo vivo. Sono passati tre giorni.
– Maestà, non ci ho colpa! Grazia, Maestà! Almeno, prima di morire, fatemi rivedere la figliuola!
La grazia gli fu concessa.
Il Re e la Regina, che avevano sentito magnificare dal Reuccio la grande bellezza di costei, vollero vederla quand’ella venne a palazzo reale.
Appena entrata nel salone, dov’essi si trovavano insieme col Reuccio cieco, questi, battendo le mani dall’allegrezza, si mise a gridare:
– La vedo! La vedo! Accanto a lei c’è una signora.
Il Re e la Regina credettero che il Reuccio fosse ammattito. Dov’era quella signora?
– È lì, accanto a lei, e la tiene per la mano.
– Per la mano? Se non ha braccia!
– Io la vedo con le braccia; ma non vedo voialtri.
Il Re e la Regina, per accertarsi se il Reuccio la vedeva davvero, facevano muovere la ragazza, in punta di piedi, pel salone; e il Reuccio la seguiva con gli occhi inariditi:
– È lì… Ora si affaccia alla finestra… Ora fa così col capo… Ora si siede per terra; e la signora che l’accompagna fa pure quel che fa lei.
Il Re e la Regina, stupiti, non sapevano che pensare di quel miracolo.
– Chi è, bella ragazza, la signora invisibile che vi accompagna?
– Maestà, non lo so; son venuta sola a palazzo… Ahi! Ahi!
La ragazza sentiva acuti dolori nel punto dove avrebbero dovuto essere attaccate le braccia.
– Ahi! Ahi!
Ed ecco venirle fuori prima la punta delle dita, poi le mani, poi i polsi, poi gli avambracci, poi le braccia intere, bellissime e bianche come l’alabastro.
Il Reuccio, urtando il Re e la Regina, si precipita verso la ragazza, le prende ansiosamente le mani e comincia a strofinarsele su gli occhi:
– Manine fatate, sanatemi voi!
Ma strofinava inutilmente.
– Manine fatate, sanatemi voi!
Ma strofinava inutilmente.
– Zitti – fece il Reuccio. – La signora parla.
Il Re e la Regina, dopo tutto quello che avevano visto, erano proprio atterriti di quella signora invisibile.
– Che dice?
– Manina, manina,
Non è mano di Regina.
Per toccare e sanare
Di Regina diventare.
Era chiaro: se il Reuccio voleva ricuperare la vista, doveva sposare quella ragazza.
La Regina si sdegnò:
– Sposare la figlia d’un sarto!
Ma il Re, che voleva molto bene al figliuolo, non se lo fece dire due volte.
– Siano mani di Reginotta; parola di Re!
E gli occhi del Reuccio, toccati dalle mani della ragazza, tornarono a un tratto quali erano una volta, anzi più vivaci e più splendenti.
Naturalmente il sarto fu cavato di prigione, e si cominciarono subito i preparativi delle nozze del Reuccio.
La ragazza, vestita con gli abiti da Reginotta, pareva davvero un sole.
La Regina non sapeva darsene pace, e le faceva ogni giorno mille dispetti. La mattina stessa delle nozze, per avvilirla al cospetto di tutta la corte, le disse:
– Reginotta, ho uno strappo nel manto reale; nessuno può rammendarlo meglio di voi.
La ragazza, senza scomporsi, andò di là, prese l’ago datole dalla signora e, inginocchiatasi, cominciò umilmente il rammendo del manto della Regina.
La Regina, vedendola così rassegnata, diventò una vipera:
– Non sapete dare nemmeno un punto!
E le strappò di mano il manto reale.
– Infatti, – rispose la ragazza – non ho mai dato un punto in vita mia.
L’ago intanto era rimasto attaccato alla stoffa, e durante la cerimonia degli sponsali la Regina si sentiva cucire, cucire tutti i panni addosso, senza sapersi spiegare che diamine di lavoro fosse quello. Era così ravviluppata, che non poteva muovere le gambe.
E l’ago cuciva, cuciva, cuciva; e quando non ebbe più niente da cucire nei panni, cominciò a cucire questi alle carni della Regina.
Figuratevi i suoi strilli! Tentava di strapparsi le vesti ma la cucitura era così forte, che ci voleva ben altro per disfarla.
E l’ago cuciva, cuciva, cuciva; e la Regina strillava come una pazza, sentendosi trapassare le carni da quella punta aguzza che non ristava un momento. Braccia, spalle, gambe, l’ago cuciva ogni cosa, cuciva, cuciva, cuciva; e gli strilli della Regina salivano al cielo!
Alla fine, non potendone più, si buttò al piedi della Reginotta:
– Reginotta, perdono! Salvatemi voi!
La Reginotta, che aveva già capito di esser protetta da una Fata, pregò:
– Fata benigna, salvatela voi!
Appena detto questo, l’ago cessò di cucire, e tutte le cuciture si disfecero da sé.
Reuccio e Reginotta vissero felici e contenti,
E noi siamo qui, senz’ago né niente.