Fiaba di Luigi Capuana
C’era una volta un calzolaio ridotto, dalle disgrazie, fino a fare il ciabattino.
Aveva preso moglie tardi. Rimasto vedovo, con una creaturina appena spoppata su le braccia, era stato costretto a prendere una donna che badasse all’orfanella e alle poche faccende che occorrevano in casa.
La mattina, di buon’ora, egli andava attorno in cerca di scarpe vecchie da rabberciare; e appena rientrato, si metteva al lavoro.
Aveva comprato alla bambina un bel cestino perché imparasse a camminare. La voleva sotto gli occhi, davanti a l’uscio; ma quando la donna non poteva star là a sorvegliarla, per precauzione egli legava il cestino con una cordicella a un piede del deschetto, e stava tranquillo. La vista della bambina, che giocherellava, sorridente, con una collana di chicchi di vetro colorato, lo metteva di buon umore. Tirava gli spaghi e cantava; batteva la suola e cantava; piantava bullette nei tacchi e cantava.
Qualcuno gli domandava: – Ciaba, perché tenete la bambina su l’uscio?
– Il libro del Perché stampato ancor non è!
– E anche col cestino legato a un piè del deschetto!… O che temete? Che ve la rubino?
– Ne sa più un matto in casa propria che un savio in casa altrui. Lasciatemi lavorare.
Tirava gli spaghi e cantava; batteva la suola e cantava; piantava bullette nei tacchi e cantava.
– Ciaba, come mai non vi si secca la gola?
– Sarebbe troppo, caro amico. Ho già asciutta un’altra cosa.
– Che cosa, ciaba?
– La tasca! La tasca! Ora esco per vedere di rinfrescarla un pochino.
Faceva un fagotto delle scarpe acconciate e le riportava di casa in casa. Chi pagava, chi no:
– Ciaba, abbiate pazienza; tornate domani.
– È che allo stomaco non posso dire: Torna domani!
Che fare intanto? Si trattava di poveretti come lui. I signori non gli davano scarpe vecchie da rabberciare, non gli ordinavano scarpe nuove col pretesto che non avrebbe saputo contentarli.
La bambina che era nel cestino davanti a la bottega, sorvegliata dalla donna intenta a far la calza o a filare, appena scorgeva da lontano suo padre, batteva le manine, gli faceva festa. Sapeva che egli non tornava mai a mani vuote per lei. Infatti, coi pochi soldi guadagnati, innanzi tutto pensava a comprare qualche dolce o un giocattolino da regalare alla bambina, e poi a un po’ di spesa per tutti, spesso pochina.
Così, come suol dirsi, sbarcava il lunario, felice di veder crescere di anno in anno la figliuola e di vederla divenire sempre più bella e di modi tanto gentili da non sembrare affatto una povera figlia di ciaba.
Ora le faccende di casa le faceva tutte lei. Lei disfare e rifare i due lettini, quello del padre e il suo; lei spazzare, rassettare le camerette del mezzanino sopra la bottega, due gusci di ovo; lei lavare i panni, stirarli; lei preparare il desinare, e la cena pure, quando c’entrava. E faceva tutto silenziosamente quasi fosse muta, tanto che il vicinato cominciò a chiamarla: l’Uccellino che non canta. È vero che il padre suppliva per lei.
Tirava gli spaghi e cantava, batteva la suola e cantava, piantava bullette nei tacchi e cantava.
– E vostra figlia, ciaba? Insegnate a cantare anche a lei.
– Canterà! Canterà!
– Quando, ciaba? Quando?
– L’Uccellino che non canta
Volerà su l’alta pianta;
Farà il nido in cima in cima…
– E poi?
– E poi?
Il ciabattino rideva, sornione, e aggiungeva:
– Non più zitto come prima!
Che se ne sapeva di tutto questo nella capitale del regno? Per ciò il Re, la Regina, gli alti personaggi di Corte erano angustiati per la grave malattia del Reuccio.
Dal giorno che il Re gli aveva detto: – Reuccio, dovete sposare la figlia del Re di Levante, – il Reuccio si era sentito prendere da un profondo senso di malinconia, e nemmeno lui sapeva perché. Si aggirava per le stanze del palazzo reale, con le mani dietro la schiena, con gli occhi che guardavano e non vedevano e parevano fissi lontano lontano.
Il Re e la Regina gli andavano dietro: – Reuccio, che vi sentite? – Reuccio, che desiderate?
– Non mi sento niente, Maestà; non desidero niente!
Mangiava poco, dormiva pochissimo, dimagriva a vista d’occhio. Dovette mettersi a letto perché non si reggeva più in piedi. Il Re e la Regina insistevano: – Reuccio, che vi sentite? – Reuccio, che desiderate?
– Non mi sento niente, Maestà; non desidero niente!
Un giorno che pareva dovesse spirare, tutt’a un tratto, disse:
– Voglio l’Uccellino che non canta!
E non gli si poté cavar altro di bocca.
Grande costernazione nella Corte. Dove trovare l’Uccellino che non canta? Furono spediti valenti cacciatori per tutti i boschi del regno con reti, retoni, retini, casotti da paretaio. Altri ne partìrono volontariamente per tentar di guadagnarsi la grande ricompensa promessa dal Re a colui che avrebbe acchiappato vivo e portato a palazzo reale l’Uccellino che non canta.
Banditori a cavallo, a suon di tromba, andavano di città in città, fin nei più remoti villaggi:
– Chi acchiappa vivo e porta a palazzo reale l’Uccellino che non canta, sarà fatto Principe, e avrà un castello e un dominio in regalo!
Allorché i banditori arrivarono nel paesetto del ciaba, la gente, ridendo, gli disse:
– Ehi, ciaba! Avete sentito? Che fortuna! Voi solo possedete l’Uccellino che non canta: mettetelo in una gabbia e portatelo a palazzo reale. Sarete fatto Principe e avrete un castello e un dominio in regalo!
Il ciaba rise anche lui, e riprese a lavorare e a cantare… Chi gliel’aveva insegnata quella canzonetta? Non se ne rammentava; gli era spuntata nella mente, come un fungo, e non l’aveva dimenticata più.
Quella nottata non gli riuscì di prender sonno; gli ronzava dentro la testa, come se qualcuno gliela cantasse sottovoce là dentro:
L’Uccellino che non canta
Volerà su l’alta pianta;
Farà il nido in cima in cima,
Non più zitto come prima!
– E se si tratta del mio Uccellino che non canta?
Rifletté un po’, si diè del matto, e uscì al solito, di buon’ora, in cerca di scarpe vecchie da rabberciare. Tutti lo canzonavano:
– Ehi, ciaba! Che fortuna! È vero che metterete in gabbia e porterete a palazzo reale il vostro Uccellino che non canta?
Se lo sentì ripetere tante volte, che una sera disse alla figlia:
– Questa notte partiremo!
La ragazza non domandò: – Per dove? Perché? – Indossò, come le aveva ordinato il padre, il vestito nuovo, di mussola celeste con fiorellini rosei, che le stava tanto bene, e a mezzanotte fu pronta.
Il ciaba volle partire non visto da nessuno dei suoi compaesani.
Camminarono otto giorni, sempre a piedi, riposandosi la notte in piena campagna, e giunsero alla porta della capitale, stanchi e affamati perché l’ultimo giorno avevan finite le scarse provviste.
Il ciaba non volle perder tempo, e condusse la figlia davanti al portone del palazzo reale.
– Che cercate, bon omo?
– Vorrei parlare con Sua Maestà il Re.
– Tornate domani. Sua Maestà oggi è occupata.
Quella guardia lo aveva creduto matto. Ma il ciaba non si diè per vinto.
– È cosa d’urgenza. Ho qui l’Uccellino che non canta.
Sentito che c’era un pover’uomo con l’Uccellino che non canta, il Re si affrettò a dar ordine che lo facessero salire su, e tutta la Corte fu sossopra, dalla gran curiosità di vedere il fortunato mortale che era riuscito a prendere l’Uccellino che non canta.
Il Re e la Regina, visti entrare quei due che guardavano stralunati, domandarono ansiosamente:
– Dunque?… Dunque?…
– Ecco qua, Maestà, l’Uccellino che non canta!
Parve che nella gran sala fosse scoppiato un tuono, tanto fu forte il grido d’indignazione del Re, della Regina e di tutte le persone presenti.
Il ciaba e la figlia, per ordine del Re, furono presi, legati e gettati in fondo a un carcere. Soltanto per riguardo alla giovinezza della ragazza non vennero giustiziati là per là.
Il Re e la Regina entrarono nella camera del Reuccio.
– Reuccio, come vi sentite?
– Reuccio, che desiderate?
Il Reuccio stava col capo abbandonato sui guanciali, mezzo trasognato, col viso infiammato dalla febbre, credette il Re; con la mente in delirio, credette la Regina. Balbettava:
– L’hanno già preso! L’hanno messo nella gabbia!
E sorrideva, beato.
– Tra giorni l’avrò qui l’Uccellino che non canta! L’hanno già preso! L’hanno messo nella gabbia!
Il Re e la Regina si sentivano spezzare il cuore.
Intanto il povero ciaba si struggeva in lacrime nel fetido carcere dov’era stato rinchiuso insieme con la figlia. Questa però se ne stava seduta in un cantuccio, zitta, come se niente fosse stato. Il carceriere era stupito del contegno di lei. E disse al padre:
– Chi vi accecò da farvi beffe del Re?
– Volevano… – i singhiozzi gli impedivano la parola. – Volevano l’Uccellino… l’Uccellino che non canta, e… l’Uccellino che non canta… è questa qui!
Il carceriere si presentò al Re:
– Maestà, o quell’omo è pazzo, o dice la verità. Egli giura e spergiura che sua figlia si chiama l’Uccellino che non canta!
Il Re rimase sconvolto da questa notizia, e ne mise a parte la Regina.
– Che, Maestà? Voi permettereste che il Reuccio sposasse quel verme di terra?
– È bella, si chiama l’Uccellino che non canta, e può dare la salute e la vita al nostro figliuolo. Almeno proviamo: facciamogliela vedere!… Se si ottiene…
La Regina non lo lasciò finire e gli voltò le spalle.
Il Re pensò:
– La notte porta consiglio.
E andò a letto, risoluto di prendere una decisione domani. La mattina, appena alzatosi, fece chiamare il carceriere.
– Maestà – disse questi. – Il vostro ordine è stato subito eseguito: strozzati tutti e due, padre e figlia!
Nello stesso momento si udirono pianti e grida per tutta la reggia.
– Il Reuccio è morto! Il Reuccio è morto!
– Ah, donna scellerata! – urlò il Re, comprendendo che l’ordine di morte era stato dato dalla Regina.
E se non. l’avessero trattenuto, l’avrebbe passata da parte a parte con la spada furiosamente cavata dal fodero. La uccise in poco tempo il rimorso di aver cagionato, con un impeto di stolta superbia, la morte del figlio.
Il Re volle che nella stessa tomba del Reuccio fosse pure seppellito l’Uccellino che non canta.
– Non han potuto essere uniti da vivi, saranno uniti, e per sempre, da morti!
Ma doveva avverarsi la canzone del ciaba:
L’Uccellino che non canta
Volerà su l’alta pianta;
Farà il nido in cima in cima,
Non più zitto come prima!
Mentre si celebravano i funerali, ecco una vecchietta che si fa largo tra la folla, gridando:- Maestà! Maestà!
Non riuscirono a trattenerla, finché non giunse al cospetto del Re.
– Che fate, Maestà? Non sono morti, dormono!
Infatti i due cadaveri sembravano proprio addormentati.
– Reuccio, su! Uccellino che non canta, su!
E furono visti rizzarsi, strofinandosi gli occhi, come chi è ancora mezzo insonnolito.
Quella vecchietta era la donna che aveva custodito, bambina, l’Uccellino che non canta. La ragazza la riconobbe e voleva abbracciarla; ma essa – una Fata! – diè un bagliore di luce vivissima e sparve nell’aria.
E il ciaba? Si destò anche lui, strofinandosi gli occhi, come chi è ancora mezzo insonnolito. Venne ad annunciarlo il carceriere tutto spaventato del fatto.
Il Re unì le mani del Reuccio e dell’Uccellino che non canta, e disse:
– Siete marito e moglie!
E il ciaba fu fatto Principe ed ebbe in regalo un castello.
Vissero tutti felici e contenti…
E c’è chi tira la vita coi denti!