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La pianta della parola

Fiaba di Luigi Capuana

C’era una volta un Principe che aveva una figlia bellissima, diventata muta tutt’a un tratto, dopo un gran spavento. Le si era paralizzata la lingua e il padre avea tentato inutilmente tutti i mezzi per farle riacquistar la parola. La Principessina, da prima, aveva pianto notte e giorno per quella disgrazia. Fino a otto anni, era stata la delizia dei parenti, degli amici con la fanciullesca parlantina e con la vocina da usignolo quando si divertiva a cantare. Ora faceva pena a vederla rispondere coi gesti, con gli sguardi, con una specie di mugolio talvolta.

A poco a poco, però, si era rassegnata; e raramente si spazientiva quando non riusciva subito a farsi capire.

Per distrarsi, passava le giornate nel giardino del palazzo paterno, cogliendo fiori, facendone mazzi e corone che erano un portento per l’intreccio dei colori, coltivando le piante che il Principe faceva venire da lontani paesi, a fine di procurarle distrazioni sempre diverse.

Non c’era giorno che non arrivassero nuove piante, o nuovi rami, o nuovi bulbi di fiori. La Principessina non voleva che il giardiniere vi mettesse le mani. Lei sceglieva i vasi, lei preparava il terriccio, lei coltivava le aiuole. Non aveva altro svago.

Ed ecco che un giorno giunge, non si sapeva da chi mandata né da qual paese, una cesta con dentro un rustico vasettino di terracotta dov’era una piantina che aveva messo soltanto le prime foglie. La Principessina fu presa da sùbita simpatia per questa pianticella le cui foglie non somigliavano a nessuna di quelle delle moltissime piante da lei possedute. Avevano il colore e la trasparenza dello smeraldo, fine, dentellate. La sera, dopo il tramonto del sole, si accartocciavano, e la mattina, allo spuntar dell’aurora, si distendevano a poco a poco, quasi si svegliassero e si stirassero deliziosamente; proprio come faceva lei appena saltata giù dal letto.

Era già cresciuta una spanna, con parecchi rami e foglioline fitte fitte. Alla Principessina parve che dovesse ormai trovarsi a disagio nel vasetto di terracotta con tanta poca terra; e una mattina, preparando un bel vaso di maiolica, da sostituire a quello, ella cominciò a parlare interiormente con la pianticina, quasi la reputasse una creatura vivente:

– Ora ti trapianterò in questo bel vaso; vi starai meglio, crescerai più presto e presto fiorirai. Farai magnifici fiori, è vero? Vedi come ti rimescolo la terra? Frolla frolla, perché l’aria vi circoli, e l’acqua la inzuppi bene.

Edicendo preparava il vaso di maiolica e, di tratto in tratto, guardava, sorridendo, la pianticina che distendeva le sue foglie per godersi la luce. Aveva fatto nel centro del vaso una buca per poter incastrare nel terriccio quello dell’altro vasettino di terracotta che ella stava per spezzare, quando le parve che la pianticina le dicesse sottovoce:

– Lasciami star qui! Lasciami star qui!

– Perché? – domandò mentalmente, punto maravigliata di sentirla parlare.

– Perché! Lasciami star qui!

Da quel giorno in poi la Principessina fu vista rimanere ore e ore davanti a quella pianticina, in grandissima ammirazione, pareva; e suo padre, che spesso la sorvegliava di nascosto, notò che la povera muta faceva gesti, mosse e prendeva atteggiamenti di persona che stesse a conversare con qualcuno, quantunque non articolasse sillaba, né mandasse fuori neppure un mugolio.

– Quella pianta – egli pensò – deve emanare effluvi cattivi, che possono turbare la ragione della Principessa! Non ha mai fatto niente di simile con tante altre non meno belle né meno rare di questa.

E ordinò al giardiniere:

– Questa notte, prendi quel vasetto e buttalo con tutta la pianta fuor del muro di cinta del giardino.

Nella nottata, il Principe sentì gridare: Ahi! Ahi! Ahi!

Accorse, e trovò il giardiniere che si contorceva con le mani bruciate quasi avesse toccato carboni ardenti.

– Che è stato?

– Quel maledetto vaso, Eccellenza! Ahi! Ahi!

Il vaso era cascato per terra e si era incrinato; per fortuna la pianticina non aveva sofferto.

– Rimettilo a posto… – ordinò il Principe.

– Fossi matto, Eccellenza! Non vede le mie mani? Ahi! Ahi!

 Il Principe si chinò, prese con un po’ di cautela il vasetto e lo rimise su lo zoccolo di marmo dov’era. Non sentì bruciore, né niente. E la mattina, stette a osservare la Principessina, nascosto dietro un albero, appena ella scese in giardino. Faceva gesti, mosse, sorrisi, quasi la piantina le raccontasse quel che le era accaduto nella nottata, e sùbito si mise a ridere a ridere, a batter le mani, contenta, soddisfatta. Pareva che dicesse:

– Ben gli stia! Ben gli stia!

Il Principe era maravigliato e nello stesso tempo atterrito.

– Ah! Quella pianta doveva certamente emanare cattivi influssi da turbar la ragione della povera Principessina! Bisognava distruggerla, a ogni costo.

Pensa e ripensa, non trovò altro di meglio che andar a consultar un vecchio Stregone a cui tutti ricorrevano, anche da paesi lontani. Non sapeva come chiamarlo. Mago? Stregone? Per non offenderlo, si risolse a chiamarlo: Nonno. Era vecchio, vecchissimo, e taluni affermavano che aveva mille anni!

– Non sono tuo Nonno; dovresti saperlo!

Alla brusca interruzione, il Principe mutò tono.

– Mago, buon Mago, vi prego…

– Non sono Mago; lascia andare! …

– Stregone, potente Stregone…

– Non sono Stregone! Tu chiacchieri troppo! Dimmi, alla spiccia, quel che desideri.

– Questo, questo e questo.

Ed espose minutamente ogni cosa. Infine, bisognava distruggere quella malefica pianta!

– Ho inteso! Ho inteso! Manderò Ròsica-Ròsica. Lascialo fare.

– Chi è Ròsica-Ròsica?

– È un verme nero, peloso, con cento gambe, grosso quanto il tuo mignolo. Lascialo fare. Dàgli tempo otto giorni.

Infatti il Principe si accorse del lavoro di Ròsica-Ròsica fin dalla mattina dopo. Se non che aveva cominciato a rodere dalla parte del giardino opposta a quella dove si trovava la malefica pianta. Il giardiniere era desolato di quella distruzione di piante, di fiori, di aiuole. D’onde passava la bocca divoratrice di Ròsica-Ròsica, foglie, cesti, tralci, sparivano!

Un giorno, due giorni, tre giorni; non c’era verso di arrestare la potenza devastatrice di quel bruco nero, peloso, con cento gambe, che si aggricciava, si stendeva, si sollevava ad arco, e rodeva, rodeva, senza fermarsi mai! La Principessina vedeva quella desolazione; ma sembrava che non se ne rattristasse e che non temesse niente per la sua cara pianticina. Stava, al solito, seduta accanto allo zoccolo di marmo su cui il vaso di essa era posto, e, dopo di averla ripulita, scalzata, annaffiata – era possibile? il Principe ci perdeva la testa! – ricominciava a far brevi gesti, mossettine, e prendeva atteggiamenti di persona che stesse a conversare con qualcuno, quantunque non articolasse sillaba, né mandasse fuori neppure un mugolio.

Siccome ella era muta, sì, ma non sorda, il Principe un giorno uscì dal suo nascondiglio, e, a bruciapelo, le domandò:- Figliuola mia, con chi tu parli?

La Principessina fece un gesto negativo con la testa e con le labbra.

– E non ti piange il cuore davanti alla distruzione di tante tue belle piante, di tanti magnifici fiori?

La Principessina fece una spallucciata da indifferente, come se tutte quelle belle piante, tutti quei magnifici fiori, già coltivati con le sue mani, non la riguardassero punto.Il Principe stava per dirle:

– Ma Ròsica-Ròsica arriverà anche qui, su la tua pianta!

Tacque, per non anticiparle questo dolore. Quella sera, la Principessina assistette, sorridendo, all’addormentarsi della pianta che accartocciava le foglie di mano in mano che la luce mancava, e, più tardi, se n’andò a dormire tranquillamente anche lei.

All’alba, il Principe scese in giardino per accertarsi se Ròsica-Ròsica avesse distrutto la piantina maledetta. Trovò Ròsica-Ròsica che girava torno torno su l’orlo del vasetto, allungava il collo, inarcava il dorso, ma non osava di intaccare neppure una foglia. All’ultimo si lasciò cascar giù e, allungandosi e accorciandosi frettolosamente, si allontanò e disparve.

In quel momento, il Principe, se avesse avuto tra le mani lo Stregone, lo avrebbe strozzato! Tutto quel guasto del giardino se lo sentiva nel cuore. E andò a lagnarsi di Ròsica-Ròsica.

– Mi ha distrutto il giardino, lasciando intatta la pianta per cui era mandato.

– Povero Ròsica-Ròsica! È morto d’indigestione!

– E quella pianticina, dunque?…

– È rimasta sola sola:

È la pianta della parola,

Non ha lingua, non ha denti,

Il Principe non poté capire le ultime parole che lo Stregone biascicò tra gli ispidi baffi e la barba; e tentò invano di ottenere qualche altra risposta. Arrabbiatissimo, mulinava per istrada quel che avrebbe dovuto fare appena arrivato a casa. Gli pareva che quella pianta gli avesse quasi rubata la figlia, tanto stava occupata da mattina a sera con essa! Non badava ad altro che a ripulirla dalle foglie secche, a scalzarle il terriccio attorno al tronco, a innaffiarla, a ripararla dal sole nelle ore calde, e poi, là, seduta accanto allo zoccolo di marmo su cui il vaso era posato, a far gesti, mosse, sorrisi, risate come una matta, quasi parlasse con qualcuno invisibile. Era davvero la pianta, già venuta su prosperosa con quelle foglie verdi e trasparenti come lo smeraldo, fine, dentellate, e che non somigliavano affatto a quelle di nessun’altra pianta; era, dunque, la pianta che ragionava con lei, la pianta della parola, secondo il detto dello Stregone?

Sarebbe andato difilato nel giardino se non avesse trovato al portone due signori che desideravano parlare con lui. Venivano da parte di un Principe di sangue reale, che chiedeva pel giovane suo figlio la mano della Principessina.

– Disgraziatamente, è muta!

– Il giovane lo sa; e dice: Meglio così!

Il Principe volle interrogare sùbito la figlia.

La Principessina non lo lasciò neppure finir di parlare, e coi gesti, e con gli sguardi, con le mosse di tutta la persona, con lunghi mugolii di sdegno gli fece intendere:- No! No! No!

Al Principe scappò la pazienza. Si slanciò contro la pianta, l’afferrò per la cima con le due mani e cominciò a sbattere il vaso per terra.

– Babbo, che fai? Babbo, che fai?

La Principessina, dallo spavento, avea ricuperata la parola; e urlava, tentando di trattenere le braccia del padre.

Il vaso di terracotta era andato in frantumi, ma le radici della pianta si allungavano, si dilatavano; i rami e le foglie prendevano forma di vestiti. Da li a poco, il Principe si trovò a stringere nei pugni i capelli d’oro di un bel giovane, il quale si rizzava in piedi, e, lasciato libero, faceva, sorridendo, un gentilissimo inchino alla Principessina e le baciava una mano.

– Sai, babbo? Sai?…

La Principessina pareva che volesse rifarsi tutta in una volta di tanti anni di mutismo.

– Sai, babbo? Sai?…

E raccontava, interrompendosi con quel: «Sai, babbo? Sai?» in che modo il bel giovane, che era Principe anch’esso, saputa la disgrazia di lei, se n’era profondamente addolorato; e aveva chiesto alla Fata sua madrina… «Sai, babbo? Sai?». E il Principe si era rassegnato ad esser cambiato in pianta per riuscire a guarirla dalla mutezza… «Sai, babbo? Sai?» Non sapeva frenarsi; parlava, parlava, parlava; e pareva che ogni sua parola fosse un sorriso, uno scoppio luminoso.

Si sposarono e furono felici.

Larga la foglia, stretta la via,

Dite la vostra, ho detto la mia.

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