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La vecchina

Fiaba di Luigi Capuana

C’era una volta una vecchina piena di malanni da essere ridotta a chieder l’elemosina, se non voleva morir di fame. In:fatti ogni giorno, coperta d’ miseri cenò che erano tutta la sua ricchezza, andava per le vie, curva, reggendosi a un bastone, e con voce fievole e lamentosa, diceva:

– Fate la carità a una povera vecchia! Fate la carità!

Picchiava alle porte delle case, si fermava davanti ai negozi e alle botteghe, stendeva la mano ai passanti, e raccoglieva tanto da sostentarsi uno o due giorni.

Accettava tutto: fette di pane, pezzetti di cacio, frutta, erbe, un pugno di noci, o di fave, o di lenticchie; ogni cosa. Ma se qualcuno, credendo di far meglio, voleva darle un soldo, la vecchina rispondeva:

– Questo no; grazie! Non posso accettarlo.

– Perché? Non è mica falso.

– Perché!

Non aggiungeva altro; e si allontanava quasi quel soldo le mettesse paura.

Il fatto era strano, che parecchi insistevano a posta per farglielo prendere, o avere almeno la spiegazione del costante rifiuto.

– Perché? Non è mica falso.

– Perché!

Nessuno aveva potuto strapparle mai una risposta diversa. Quando aveva fatto la sua piccola raccolta, tornava a casa (se si poteva dir casa il tugurio dove abitava), chiudeva la porta, e non usciva fuori fino al giorno dopo. Sembrava che volesse evitare la luce e l’aria.

Inutilmente, nelle belle giornate, la facciata e il tetto del tugurio erano inondati di sole. Le vicine si mettevano a lavorare, a chiacchierare, a preparare nella via, su fornellini di creta, il desinaretto delle loro famiglie; e non sapevano persuadersi come mai la vecchina non sentisse il bisogno di ristorarsi col buon tepore che non costava niente, mentre l’umido di quella specie di tana e il tanfo di rinchiuso dovevano agghiacciarle il corpo e mozzarle il fiato.

I ragazzi, istigati anche dalle mamme, andavano a picchiare alla sua porta:

– Comare! O comare!

E non ricevevano nessuna risposta, come se là dentro non ci fosse anima viva. Eppure l’avevano vista rientrare, curva, appoggiata al bastone, col grembiule ricolmo della carità ricevuta.

– Comare! O comare! Uscite a godervi questa occhiata di sole!

E picchiavano più forte, armati di sassi. Ma non ricevevano nessuna risposta; come se là dentro non ci fosse anima viva.

La curiosità delle vicine diveniva più intensa nelle giornate che la vecchia rimaneva tappata in casa, perché il giorno avanti aveva raccolto tanto da non sentir bisogno di ritornare a chiedere l’elemosina.

Andavano a picchiare alla porta del tugurio.

– Comare! O comare! Vi sentite male? Vi occorre qualcosa?

E si allontanavano indispettite contro la vecchiaccia che non si curava di loro e non rispondeva neppure: Grazie! come, almeno, avrebbe dovuto.

La mattina dopo, vedendola uscire coperta dei soliti miseri cenci, curva, appoggiata al bastone, la rimproveravano:

– Ieri vi abbiamo chiamata più volte, credendo che steste male!

– Ho l’udito duro, molto duro.

– Ora però sentite bene.

– Sento e non sento,

Parole al vento!

– Che intendete dire?

– Niente… Fate la carità a una povera vecchia! Fate la carità!

E andava via curva, appoggiandosi al bastone, lasciando le comari più curiose e più deluse di prima.

Nessuno sapeva chi fosse né donde fosse venuta. Anni addietro l’avevano vista comparire con indosso gli stessi stracci, curva, appoggiata al bastone, coi capelli bianchi e la faccia piena di rughe. Ed era rimasta tale e quale, quasi gli anni non le si aggravassero su le spalle, e i guai e la miseria non avessero presa su di lei.

Ciò contribuiva ad accrescere la curiosità delle vicine. Parecchie di esse, che all’arrivo della vecchia erano bambine, con le vesti corte e le trecce dietro le spalle, ora non si sapevano dar pace di vedersi coi capelli bianchi, col viso pieno di grinze, con pochi denti in bocca, mentre colei, in tanti anni, non aveva fatto nessun cambiamento.

– Comare, che adoperate per mantenervi così?

– Adopro un po’ di…

E le ultime parole le morivano su le labbra.

– Come avete detto, comare? Adopro un po’ di…

E le ultime parole, quasi lo facesse a posta, le morivano su le labbra.

Una, rabbiosa di vedersi più vecchia assai di quella, quantunque avesse molti anni di meno, disse alle altre:

– Costei deve possedere chi sa che polveri o unguenti per preservarsi di invecchiare. Non può essere diversamente.

– È vero! È vero! – risposero le altre.

– Scassiniamo la sua porta mentre essa va attorno a chiedere l’elemosina, e prendiamoci un po’ delle polveri, o degli unguenti che troveremo là dentro.

Non ebbero bisogno di scassinare la porta. Quella mattina, caso insolito, la vecchia aveva dimenticato la chiave nella serratura, e le più ardite poterono penetrare nel tugurio, mentre tre di esse stavano, in vedetta, alla cantonata, per avvertirle della comparsa della vecchia in fondo alla via.

Là dentro invece di tanfo, odore delicato, acutissimo, che dava alla testa; invece di umido, tepore che produceva una dolce sensazione di benessere. Pareti coperte di muschi che le faceva:no apparire vellutate; pavimento con uno strato di paglia trita, dove i piedi affondavano deliziosamente, e non una seggiola, :non un tavolino, non un letto. In un angolo, per terra, due piatti di stagno e due brocchette di vetro con dentro un liquore che, certamente, non era vino, quantunque ne avesse l’apparenza.

– Gustalo prima tu!

– No, tu: io lo assaggio dopo.

– Lasciate fare a me.

E la terza ne bevve un sorsettino.

– Delizioso!

Si leccava le labbra. Allora bevvero anche le altre. Provarono uno stordimento, un’eccitazione, un senso di leggerezza e si sentirono trasportate attorno, per aria, mandando fuori un ronzio simile a quello delle mosche; sbattevano le teste alle pareti, alla volta, come le mosche sui vetri chiusi di una finestra, e non trovavano l’uscita. Finalmente parvero buttate fuori per le spalle; la porta si richiuse dietro ad esse.

Accorsero quelle che stavano alla vedetta.

– Dunque?

– Dunque che cosa?

–  Avete trovato?

– Che dovevamo trovare? Vi fate beffa di noi? Voialtre, invece!

Non ricordavano niente e si accapigliarono dandosi schiaffi, pugni, graffi, strappate ai capelli, senza che nessuna di loro capisse perché. All’ultimo si guardarono in viso, scoppiarono a ridere, e tutte fecero lo stesso gesto portando l’indice, ritto, davanti alla punta del naso; avevano visto comparire la vecchia in fondo alla via. Veniva curva, appoggiandosi con una mano al bastone, e reggendo con l’altra il grembiule straordinariamente ripieno di roba.

– Ah! Quanto ben di Dio! – le disse una delle vicine.

– Ve lo mangerete da sola, comaruccia? – soggiunse un’altra.

– Ne dò a chi non ne vuole; a chi ne vuole no.

– Io non ne voglio!

– E neppure io!

– Io nemmeno!

Intanto le si affollavano attorno stendendo le mani.

– Giacché non ne volete…

E la vecchia fece due passi in avanti.

– Ne vogliamo! Ne vogliamo!

– Ma io vi ho detto: A chi ne vuole, no!

E la vecchia fece altri due passi in avanti. Sembrava di buon umore quella mattina; mai si era fermata a ragionare a lungo con loro.

– Via! – disse. – Ne darò a chi ne vuole e a chi non ne vuole.

Buttò il bastone per terra e con la mano rimasta libera cominciò a frugare nel grembiule, mormorando:

– Se ne vuoi o non ne vuoi,

Bada meglio ai fatti tuoi…

Questo è per te…

– Se ne vuoi o non ne vuoi,

Bada meglio ai fatti tuoi…

Questo è per te…

Distribuiva gingilli, confetti, biscotti, pasticcini.

– Se ne vuoi o non ne vuoi,

Bada meglio ai fatti tuoi…

Questo è per te, ed è l’ultimo. Ora lasciatemi passare.

Appena la vecchia disparve, le vicine cominciarono a bisticciarsi: – Fammi vedere! – Non toccare! – È meglio il mio! Puah! – Sarà bello il tuo!

Ma, mentre parlavano e si davano spintoni, gli oggetti, regalati dalla vecchia a ognuna di esse, mutarono di colore, s’afflosciavano, si liquefacevano, sparirono lasciando un po’ di untume che macchiava di nero i polpastrelli delle dita; e le donne si sentirono spinte ad avanzarsi a vicenda:

– Bada meglio ai fatti tuoi!

– Lo dici a me? Bada meglio al tuoi piuttosto!

– Che vorresti dire? Piuttosto al tuoi!

– Io non m’impiccio dei fatti altrui.

– E neppur io, se vuoi saperlo!

Poco mancò che non riprendessero ad accapigliarsi.

Non sapevano darsi pace che la vecchia le avesse canzonate a quel modo; intanto cominciarono a sentirne un po’ di paura.

E se i ragazzi – perché ormai ci avevano preso gusto – andavano a picchiare coi sassi alla porta di lei: – Comare! O comare! – li sgridavano:

– Lasciatela tranquilla, poverina!

Alcune pensarono, senza esservi nessun accordo, ognuna per conto suo:

– Bisogna ingraziarsela, con qualche servizio.

La mattina dopo, due di esse s’incontrarono davanti alla porta della vecchia, prima che essa venisse fuori per l’elemosina. Si guardarono in cagnesco.

– Che siete venuta qui a fare, comaretta?

– Quel che vorreste fare anche voi, comarina!

– Io, niente!

– Niente pure io.

– Me ne vado.

– Io resto.

– Allora resto anch’io.

– Se è… per la vecchia, mettiamoci d’accordo.

– Mettiamoci d’accordo. Io volevo proporle…

– Precisamente, quel che volevo proporle io.

– Se non ho ancora detto…

– Vi ho capita a volo!…

Ma quando la vecchia aperse la porta, le due donne si trassero di lato e non osarono di dirle neppure: – Buon giorno, comare!

– Come siamo sciocche! – esclamò una di esse. – Che deve importarci della vecchia?

– Dite bene, comare; che deve importarcene?

– Certe volte, intanto, costei mi fa pietà.

– La colpa è sua; vive come un’orsa in quella tanaccia!

– Volevo dirle: Se avete bisogno di qualcosa…

– Le stesse parole volevo dirle io.

– Non voglio più pensarci!

– Non voglio più pensarci!

Ma la mattina dopo erano quattro davanti a la porta.

– Non avete niente da fare, comare?

– E voi? Così mattiniera qui?

– Per godermi il fresco prima che si levi il sole.

– Io pure!

– Io pure!

– Io pure!

– La vecchia è già andata fuori?

– Chi si occupa della vecchia? Ho ben altro da fare!

– Tornate a casa?

– Vi lascio libero il posto.

– A me? Non so che farmene!

Si rispondevano invelenite dalla stizza di vedere che tutte e quattro avevano avuto la stessa idea: d’ingraziarsi la vecchia, quasi ciascuna credesse che le altre agivano per farle dispetto.

Ma quando la vecchia aperse la porta, tutte e quattro si ritrassero di lato, e non osarono di dirle neppure: – Buon giorno, comare!

La curiosità dell’intero vicinato giunse al colmo allorché si seppe che la vecchia riceveva umilmente qualunque cosa in elemosina, ma rifiutava, quasi con sdegno, di prendere un soldo. La donna che aveva la casa poco distante dal tugurio della vecchia, un giorno la fermò mentre tornava col grembiule pieno zeppo di cose di ogni genere: pane, cacio, frutta, fagiuoli, ceci, lenticchie.

– Scusate, comare, è vero che voi non accettate mai un soldo per elemosina? Perché, comare?

– I soldi non si mangiano.

– Ma servono a far comprare cose che si mangiano.

– Eh? Non ne ho bisogno. Guardate…

E mostrò il grembiule così ricolmo che lo reggeva a stento per le cocche.

– Se ne volete, servitevi.

Alla donna non parve vero di riempirsi il grembiule, afferrando alla rinfusa quel che capitava; e, com’ella prendeva a piene mani, il grembiule della vecchia tornava ad essere ricolmo quasi più di prima.

La donna rimase trasecolata. Il suo grembiule pesava, pesava, da non poter reggerlo più. Infatti, avanti di varcar la soglia della sua casetta, le mani rilasciarono le cocche e ogni cosa si sparse per terra.

Ella tentava di raccattarle; ma erano accorse le galline, i cani, i gatti, i maiali del vicinato e si eran messi a beccare, a mangiare, a divorare così lestamente che non le era valso di entrare in casa, afferrare la granata e tentar di scacciare a colpi di essa quelle bestie affamate. In men che non si dica, non rimaneva briciolo di niente per terra!

– Che è stato, comare? – le domandarono le vicine.

– Altri han le bestie ed io le mantengo?

– Come? Qualche disgrazia?

– Che ve n’importa? Ormai!

Non volle dir nulla, perché quelle non pensassero, alla lor volta, di fermare la vecchia e domandarle: – È vero, comare, che non accettate mai un soldo per elemosina?

L’avrebbe fermata lei, il giorno appresso; e se la vecchia le apriva nuovamente il grembiule, ella non avrebbe ricolmo il suo :fin a vederlo pesante da non poter reggerlo più e si sarebbe contentata di riempirlo a metà.

Ma da quel giorno in poi parve che la vecchia evitasse di incontrarla: usciva di casa prima dell’alba, rientrava quando quella donna non si trovava su la porta di casa, in attesa, o nella via, per godersi il sole.

Intanto, le vicine notavano che la vecchia già trascinava i piedi come non aveva fatto finora, e si appoggiava più curva e più stanca sul bastone, quantunque non mostrasse in viso nessun sintomo di fiacchezza, e nessun mutamento nel suono della voce.

E, un giorno, la videro fermarsi in mezzo alla via, ansimante, quasi non avesse forza di andare avanti e di reggersi in piedi. Accorsero; si offersero in coro:

– Avete bisogno di qualcosa, comare?

– Ho bisogno di tre serve; una per la pulizia della casa; una per lavarmi e stirare la biancheria; una per prepararmi il desinare e la cena, e rifarmi il letto ogni sera.

– Ci canzonate, comare?

– Parlo in serietà.

– E con che pagherete il salario, se non avete neppure un soldo?

– I soldi basta chiamarli, accorrono sùbito.

Le vicine si guardarono in viso, trattenendosi a stento dal ridere.

– Povera vecchia! Le ha dato di volta il cervello!

Ma, pur pensando così, si divertirono a provocarla:

– Dove le ficcherete queste tre serve, comare?

– Ci ho posto anche per sei.

Le vicine tornarono a guardarsi in viso, trattenendosi a stento dal ridere.

– A patto, però, – soggiunse la vecchia  che debbano rimanere con me un anno, un mese e un giorno, chiuse in casa, senza vedere né parenti, né amici.

– Per la pulizia della casa vengo io.

– Io, per lavare e stirare la biancheria.

– Io, per preparare il desinare e la cena, e rifare il letto ogni sera.

– Badate: chi entra da me non ne esce prima che sian passati un anno, un mese e un giorno! Badate!

– Sì, sì, comare: un anno…

– un mese…

– e un giorno!…

– Allora… venite.

Le tre donne si avviarono dietro a lei, convinte che si trattasse di una bislacca fantasia di vecchia ringrullita o di vecchia impazzita.

Le altre le accompagnarono fino alla porta del tugurio, ridendo, fingendo di felicitarsi con esse della buona sorte capitatagli. Ridevano anche quelle:

A rivederci tra un anno…

–  un mese…

– e un giorno!

La vecchia entrò l’ultima e richiuse la porta.

Le vicine si attendevano di veder ricomparire le tre donne dopo pochi momenti. Passò un’ora, ne passarono due; passò una giornata, ne passarono due; e di quelle disgraziate più non si ebbero notizie.

Che ne aveva fatto la vecchia pazza? Come potevano vivere in quella tanaccia dove c’era appena posto per una persona?

Si vuotarono il cervello in mille congetture; e qualcuna arrivava fino a invidiarle, specie quando la vecchia, interrogata, rispondeva:

– Mangiano, cantano, dormono; non cercano altro.

– Ma che fanno?

– Una la pulizia della casa; l’altra mi lava e mi stira la biancheria; la terza mi prepara il desinare e la cena, e mi rifà il letto ogni sera.

– E questi cenci che avete indosso voi? Perché non pensate a cambiarli?

– Sareste felici di averli indosso voi! Lasciatemi andare… Fate la carità a una povera vecchia! Fate la carità!

Si allontanava curva, appoggiata al bastone; e prima di mezzogiorno tornava curva, appoggiata al bastone, col grembiule così ricolmo che lo reggeva a stento per le cocche.

– Sareste felici di averli indosso voi! Che poteva significare?

Le vicine si vuotavano il cervello in mille congetture; e la vecchia diventava ogni giorno più misteriosa che mai.

Fino allora la curiosità e le notizie non erano passate più in là dell’ultima cantonata di quella viuzza fuori mano.

Tutti, è vero, conoscevano la vecchia che andava attorno per chiedere l’elemosina e che riceveva qualunque cosa le si desse all’infuori di un soldo; ma neppure questa stranezza aveva mai spinto qualcuno a cercar di veder chiaro nella vita di lei.

A poco a poco, però, le chiacchiere delle vicine cominciarono a destare la curiosità della gente; le fantasie lavoravano, alteravano i fatti. Da tre, le serve che la vecchia teneva rinchiuse nel suo tugurio, aumentarono fino a trenta.

Erano vive? Erano morte? Chi ne sapeva niente? E, in che modo, lei che viveva di elemosina, che aveva per vesti un mucchio di luridi cenci da anni ed anni, poteva ora mantenere tante serve, ognuna destinata a far soltanto un servizio, ripulire la casa, o lavare e stirare, o preparare desinare e cena, o rifare il letto ogni sera?

Così il mistero di quella vecchia giunse fino all’orecchio del Re, della Regina e del Reuccio.

La vecchia era solita di presentarsi, due volte la settimana, al portone del palazzo reale, o di fermarsi sotto le finestre se per caso vi si trovava affacciata la Regina.

– Fate la carità a una povera vecchia! Fate la carità!

Il Re aveva ordinato al cuoco di darle tutto quel che era avanzato del desinare del giorno avanti; la Regina mandava giù una delle sue cameriere per recarle quel che era rimasto della cena della sera.

Ma dacché il Re, la Regina e il Reuccio avevano saputo quel che si vociferava intorno alla vecchia, questa, quasi avesse fiutato nell’aria che il Re, o la Regina, o il Reuccio volessero interrogarla, non si fece più vedere davanti al palazzo reale.

Allora il Re ordinò ad un alto ufficiale di Corte:

– Cercate la vecchia e conducetela qui.

Costui corse difilato a casa di lei; ma le vicine gli dissero che era fuori da un pezzo.

Per far più presto, si diè a interrogare le persone per la via.

– Avete incontrato quella vecchia, curva, coperta di cenci, che si regge a un bastone e che chiede l’elemosina?

– Ha svoltato or ora il canto. Potrete raggiungerla con due passi, se fate presto.

Svoltato il canto, la vecchia non c’era.

– Avete visto quella vecchia, curva, coperta di cenci, che si regge a un bastone e chiede l’elemosina?

– Quella che rifiuta i soldi? Ha infilato il vicolo a destra. Potrete raggiungerla con due passi, se fate presto.

Infilato il vicolo, la vecchia non c’era. L’ufficiale replicava la domanda.

– Quella? L’ho vista entrare nel portone laggiù. Se fate presto la raggiungerete.

E per due giorni fu così.

Il Re era su tutte le furie, e la Regina e il Reuccio pure. Al terzo giorno l’ufficiale andò ad appostarsi accanto al tugurio della vecchia e attese ch’ella uscisse per l’elemosina.

Le vicine, tutte alle finestre, alle porte delle case e delle botteghe, su la via, stranite di veder là un ufficiale del Re.

– Ne ha fatta qualcuna troppo grossa!

– Giacché se ne mescola il Re!

– Volete scommettere che la vecchia non si farà vedere?

L’ufficiale del Re – che credete? – ordinerà di sfondare l’uscio.

– E così sapremo la sorte di quelle tre disgraziate!

– Ecco: picchia alla porta la terza volta.

– Finalmente!

Si vide affacciare su la soglia la vecchia appoggiata al bastone, coperta dei soliti cenci.

– Chi ha picchiato?

– Ho picchiato io, in nome di Sua Maestà il Re. Vi vuole a palazzo.

– Sua Maestà il Re sa dove abito. Si scomodi a venire qui, se ha bisogno di me!

E gli chiuse l’uscio in faccia. L’ufficiale andò via arrabbiatissimo per l’affronto ricevuto. Il Re, udita quella risposta, ordinò che una squadra di soldati, con pali e picconi, andassero a sfondare la porta della vecchia impertinente, e gli portassero costei dinanzi, legata mani e piedi.

Le vicine, tutte alle finestre, alle porte delle case e delle botteghe, su la via, per assistere a quello spettacolo.

– Ve l’avevo detto? Sfonderanno la porta.

– E sapremo la sorte delle tre disgraziate!

I soldati davano forti colpi di picconi e di pali; ma la porta, che sembrava di legno mezzo infracidito dal tempo e dall’umido, resisteva quasi fosse di acciaio. E dài, e dài, e dài; sprizzavano scintille, ma la porta non cedeva!

I soldati erano stanchi, in un bagno di sudore, con le braccia indolenzite. Si riposavano un po’ e riprendevano i colpi di picconi e di pali. E dài, e dài, e dài, sprizzavano scintille, ma la porta della vecchia non cedeva!

Non ne poterono più, e tornarono, mogi, mogi, a palazzo reale.

Il Re, vistili stanchi morti, sfiniti, diè ordine di rifocillarli col pranzo preparato per la Corte; e intanto non sapeva darsi pace dello smacco infiittogli dalla vecchia.

– Chi era dunque costei? Una Strega, certamente!

– O una Fata! ~ disse il Reuccio.

– Così brutta e così sudicia?

La Regina si atteggiò con le labbra e con le mani a un gesto di nausea.

– Ho fatto un sogno la notte scorsa.

– Non è momento da raccontar sogni, Reuccio!

– Maestà, mi pareva di passare per una viuzza stretta stretta, e disentir chiamare: «Reuccio! Reuccio! ». Mi volto, guardo attorno, non vedo anima viva. Vado avanti, e, di nuovo: «Reuccio! Reuccio!». Mi volto, guardo attorno, non vedo anima viva. Finalmente, scorgo in un punto un po’ di luce; mi accosto e guardo da quel buco… Ah, Maestà!… Una camera tutta di oro e diamanti, e una giovane su un lettino… bella più del sole e della luna… addormentata, e, accoccolata a piè del lettino, una vecchia che diceva: «Il Reuccio verrà! Il Reuccio verrà!». Ed era la stessa voce che aveva chiamato: «Reuccio! Reuccio!». Maestà, permettetemi di andar dalla vecchia. Chi sa che il sogno non si avveri!

Il Re gli diè un’occhiataccia per tutta risposta; un’occhiataccia la Regina. Ma il Reuccio non si scoraggiò. Pensò di travestirsi da povero contadino e di andare dalla vecchia all’insaputa del Re e della Regina.

La mattina dopo scese in giardino, e cercò di un giovinotto della sua età, che aiutava un giardiniere ad annaffiare le aiuole.

– Dammi il tuo vestito, ti regalo in cambio questo mio.

– Oh, Reuccio!

Il contadino rideva, rideva!

– Svèstiti, via, dammi il tuo vestito; ti regalo in cambio questo mio.

– Oh, Reuccio!

Il contadino rideva, rideva; la proposta gli sembrava uno scherzo.

E ce ne volle per persuaderlo!

Così travestito, il Reuccio poté uscire dal palazzo reale e avviarsi, lesto lesto, verso il tugurio della vecchia. Anche da contadino, il Reuccio era un bel giovane che dava nell’occhio di chi lo incontrava. La gente si voltava, si fermava per guardarlo. Per ciò le vicine della vecchia, appena si sparse rapidamente la notizia che un bel giovane chiedeva di lei, furono tutte alle finestre, alle porte delle case e delle botteghe, in mezzo alla via.

E rimasero a bocca aperta, quando al primo picchio da lui dato alla porta, questa si aperse. La vecchia apparve su la soglia, gli stese una mano, lo introdusse dentro, e richiuse sùbito.

Un uffiziale del Re, no; e un contadino, sì!

Pareva impossibile.

Stettero fino a tardi alle vedette, per interrogarlo quando sarebbe uscito. Venne la sera, s’inoltrò la notte; le più ostinate si addormentavano in piedi, appoggiandosi con le spalle ai muri, dando sbalzi di tratto in tratto. Inutilmente! Sorse l’alba, spuntò il sole, e il bel contadino non fu visto uscire neppure durante quella giornata.

Una delle vicine, la più inviperita, corse dal Re.

Al portone le guardie non volevano farla entrare.

La Corte era sossopra. Il Re e la Regina su tutte le furie. Guardie che andavano, guardie che arrivavano, guardie che ripartivano in fretta. E quella che insisteva:

– Voglio parlare col Re, per cosa d’importanza.

– Ma non lo sapete, dunque, che il Reuccio è sparito?

La donna ebbe un lampo d’intelligenza, e rispose:

– Si tratta appunto del Reuccio.

Allora la condussero alla presenza del Re.

Come lo vide col manto su le spalle, la corona di oro e pietre preziose in testa, e lo scettro in mano, la donna si confuse, cominciò a tremare e a balbettare.

– Maestà… Il vostro uffiziale …. no; un contadino, sì… L’ho visto con questi occhi… Alto, biondo, giovane… Picchiò, e la vecchia gli aperse sùbito. Lo prese per mano… Il vostro uffiziale, no; un contadino, sì.

– E che c’entra il Reuccio?

– Maestà… Il vostro uffiziale, no; un contadino, sì. Può darsi che questi sia il Reuccio.

– Il Reuccio, contadino?

Se non fosse intervenuta la Regina, il Re per punire quella donna l’avrebbe fatta buttare in fondo a un carcere.

Il giovane del giardiniere non aveva osato di indossare il vestito del Reuccio in cambio del suo. Aveva rimediato con un altro più vecchio; e, fatto un fagotto di quello del Reuccio, lo aveva buttato dietro una siepe.

Lo trovò il giardiniere che s’affrettò a portarlo al Re. Allora il Re disse:

– Può darsi che quella donna abbia ragione. Il Reuccio voleva andare dalla vecchia, e si è travestito da contadino per non esser riconosciuto. È una Strega, certamente.

– O una Fata – soggiunse la Regina. – Comincio a crederlo anch’io.

– Che dobbiamo fare, Regina?

– Attendere, Maestà!

– Attendiamo! Attendiamo!

Il Re sbuffava, schizzava fuoco dagli occhi.

Lasciamo costoro e veniamo intanto al Reuccio.

Appena entrato nel tugurio della vecchia, egli fu maravigliato di non vedersi più addosso i panni del contadino, ma un abito di broccato tramato di oro; in testa, cappello con magnifiche piume candidissime; al piedi, calzari di cuoio ricamati con brillanti; e, alla vita, una cintura riluccicante di pietre preziose. Neppure nei giorni di gran gala, egli era apparso riccamente vestito nelle sale reali.

Reuccio, che volete? Che cercate?

– Cerco il tesoro che in custodia avete.

– Io tesoro non ho, voi v’ingannate.

– Dunque la bella che sognai voi siete.

Botta e risposta.

La vecchia picchiò con la punta del bastone nel muro di faccia, e il Reuccio si sentì abbagliare gli occhi dalla vivissima luce che rischiarava la fila di stanzoni dilungantesi fino in fondo, a perdita di vista.

Si presentarono tre giovani donne, una più bella dell’altra.

– Io ripulisco. Comandi!

– Io cucino. Comandi!

– Io sprimaccio. Comandi!

Il Reuccio passò oltre. Gli pareva di risognare il sogno di quella notte, e cercava ansiosamente con gli occhi la bellissima addormentata sul lettino d’oro e diamanti.

La vecchia dietro a lui.

– Reuccio, che volete? Che cercate?

– Cerco il tesoro che in custodia avete.

– Io tesoro non ho, voi v’ingannate.

 – Dunque la bella che sognai voi siete.

Botta e risposta.

Tutt’a un tratto si fece buio. Dopo pochi momenti, una luce azzurrognola cominciò gradatamente a rischiarare gli stanzoni, e il Reuccio si vide davanti l’addormentata più bella della luna e del sole; ma non pareva di carne e di ossa: pareva fatta d’aria e di luce, senza consistenza.

– Ecco il tesoro che cercavo!

E pareva anche come riflessa in uno specchio.

Il Reuccio si voltò… e che vide?

Vide la vecchia ritta in piedi, che formicolava per tutta la persona. La pelle del viso si stirava, si coloriva, i capelli si agitavano al pari di tanti serpentelli e buttavano giù le scoglie, diventando biondi, di oro filato; i cenci che le coprivano il corpo prendevano aspetto di stoffe tramate d’oro e di argento e si adattavano maravigliosamente alla snella persona.

– Fate la carità a una povera vecchia! Fate la carità!

E stese la mano.

Il Reuccio si levò da un dito il più ricco degli anelli che portava, e glielo diede.

La bellissima giovane lo buttò sdegnosamente per terra, e riprese a dire:

Fate la carità a una povera vecchia! Fate la carità!

Il Reuccio, mortificato, si levò dalle dita tutti gli anelli che portava, e glieli mise nel palmo della mano. La bellissima giovane li buttò sdegnosamente per terra, e riprese a chiedere.

– Fate la carità a una povera vecchia! Fate la carità!

Il Reuccio si sentì mancare il cuore, e istintivamente ficcò le mani nelle tasche. In una di esse trovò un vecchio soldo, tutto incrostato di pàtina. Esitò un momento, vergognandosi di non aver altro; poi glielo porse, dicendo:

Più bella della luna,

Soldo della fortuna!

Più bella assai del sole

Soldo che vale un cuore!

– Grazie, Reuccio! Ora è rotto l’incanto.

E la bellissima donna, più bella della luna e del sole, baciò il vecchio soldo e se lo nascose in seno.

Si ripresentarono le tre giovani donne.

– Reuccio, ho ripulito!

– Reuccio, ho cucinato!

– Reuccio, ho sprimacciato!

Il Reuccio era così sbalordito di quel che avea visto e vedeva, da più non distinguere se era sveglio o se sognava. Non ricevendo nessun ordine le tre giovani donne sparirono.

Ed egli intanto stava ad ascoltare quel che confusamente gli arrivava all’orecchio. Era la storia d’una Fata, che si era finta vecchia e povera e avea chiesto l’elemosina a una Reginotta ancora bambina. La Reginotta, per scherzo, le avea dato un vecchio soldo tutto incrostato di pàtina, e la Fata le aveva buttato addosso il malefizio di stentare settant’anni la vita, chiedendo l’elemosina, fino a che non fosse andato a trovarla un Reuccio e non le avesse regalato un vecchio soldo uguale a quello. Non doveva mai prendere in elemosina un soldo; altrimenti – non si lusingasse! – era finita per lei. E per ciò ella avea sempre rifiutato:

– Questo no, grazie! Non posso accettarlo.

– Perché? Non è mica falso.

– Perché!

E si allontanava, senza aggiunger altro, quasi quel soldo le mettesse paura.

Il malefizio si era rotto; ma per impedire che ricominciasse, bisognava che tutti e due andassero, a piedi, fino alla grotta della fata Cattiva, facessero un profondo buco davanti la grotta e vi seppellissero quel misero vecchio soldo, senza che nessuno se ne accorgesse, né uomo, né animale della terra, né uccello dell’aria. Così aveva suggerito la buona Fata, sua madrina, che aveva potuto aiutarla in questi ultimi anni.

– Andiamo, dunque? Non bisogna perder tempo.

– Andiamo! – rispose il Reuccio ancora sbalordito.

E si trovò di nuovo nel tugurio, vestito da contadino, come vi era entrato, e avea davanti la vecchia curva, coi soliti cenci, e che si reggeva col bastone.

Le vicine li videro uscire di buon mattino.

– Buon giorno, comare! Buon giorno, comparetto!

Ne avevano paura, e volevano ingraziarseli.

La vecchia e il Reuccio presero la strada dei campi. Cammina, cammina, si trovarono in mezzo a un bosco, dove non era traccia di sentìero.

– Buona Fata mia madrina, apriteci un sentìero voi

E i rami delle piante e gli arbusti si ritraevano, si slacciavano davanti ai passi della vecchia e del Reuccio.

Più in là, ecco tanti massi, grossi e piccoli, ammonticchiati da impedire il cammino.

– Buona Fata mia madrina, apriteci una strada voi!

E i massi, grossi e piccoli, si muovevano, si ammucchiavano ai lati, lasciando passare liberamente la vecchia e il Reuccio.

– La grotta! La grotta!

S’inginocchiarono davanti alla bocca di essa, chiusa ermeticamente con un macigno, e cominciarono a scavare.

Si accostò un uomo:

– Che fate?

– Niente: ci divertiamo a smuovere un po’ di terriccio.

– Bel divertimento! Da grulli!

E, dopo di esser rimasto un pochino a guardare, andò via.

Poco dopo, comparve una capra che belava quasi cercasse il figlio smarrito. Più il Reuccio la cacciava via, e più essa tornava addietro a belare e a guardare.

Finalmente se n’era andata! Ma appena il Reuccio avea ripreso a scavare, ecco una grand’aquila, che cominciò a roteare sopra di loro, squittendo, e pareva li minacciasse.

– Aquila forte, – le gridò la vecchia – più in là c’è una capra per te; non lasciartela sfuggire.

Sembrò che l’aquila avesse capito. Si allontanò a volo spiegato, e la vecchia e il Reuccio ripresero a scavare celermente. La buca era fonda; il braccio del Reuccio non poteva arrivare più giù. La vecchia trasse dal petto il vecchio soldo e ve lo buttò dentro. Il Reuccio la riempì col terriccio cavatone, che la vecchia calcò con le mani e con la punta del bastone. Il Reuccio, all’ultimo, vi sovrappose una zolla coperta di erbacce; nessuno avrebbe potuto indovinare che fosse stato scavato là sotto.Si affrettarono a ritornare.

Le vicine li attendevano, affacciate alle finestre, davanti alle porte delle case e delle botteghe; e, come li videro:

– Buon giorno, comare! Buon giorno, comparetto!

Ne avevano paura e volevano ingraziarseli.

Figuratevi, poi, la loro gran maraviglia, quando preceduti dalle guardie di palazzo, accompagnati dai Ministri e dalle dame di Corte, arrivarono il Re e la Regina in grandi carrozze di gala, e si fermarono davanti a la porta del tugurio della vecchia! Chi li aveva avvertiti? Non si è potuto mai sapere…

Ormai, importa soltanto di sapere che il Reuccio e la non più vecchia ma bellissima Reginotta divennero sposi, vissero felici e contenti…

E noi tiriamo la vita coi denti!

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