Una fiaba dei fratelli Grimm
Vicino ad una foresta viveva un povero spaccalegna che aveva così poco lavoro da non saper come portare tutti i giorni un pezzo di pane alla moglie e a’ suoi due bambini, Nannino e Ghita. Venne il tempo che furono proprio ridotti a patir la fame senza aver dove cercare aiuto. Una notte che il pover’uomo si rivoltava da un lato e dall’altro e non riusciva a prender sonno per la gran pena che gli stava in cuore, la moglie gli fece una proposta:
— Non c’è che un modo per tirare avanti un altro po’ di tempo, marito mio!
— Quale?
— Domattina va’ al bosco e prenditi i bambini con te. Da’ ad ognuno un tozzo di pane, conducili proprio in mezzo, dove il bosco è più fitto, accendi una fiammata e lasciali lì. Noi non li possiamo più campare.
— Ah! questo non lo faccio davvero! Poveri piccini! io che sono il loro babbo dovrei portarli nel bosco e lasciarli divorare dalle bestie feroci? Mai e poi mai!
Il buon padre non voleva, ma la moglie a ribattere che così non potevano andare avanti, che se tenevano i bambini sarebbero morti di fame tutti e quattro insieme. Alla fine, il marito dovè cedere e prometterle di fare a modo suo. I due piccini non avevano ancora preso sonno perchè la fame rodeva loro lo stomachino e udirono tutto. La bimba, nascosto il capo sotto le coperte, piangeva dicendo al fratello
— Addio, povera Ghita! è finita per te, è finita! – ma Nannino si dava a consolarla, a prometterle che a salvare sè e la sorellina avrebbe pensato lui.
Infatti, appena i genitori si furono addormentati, egli s’infilò il vestitino, piano, piano senza far rumore, e zitto e chiotto sgusciò fuori dalla stanza, all’aperto. La luna brillava e i sassolini che erano stesi davanti alla capanna scintillavano come tante monete. Nannino li raccattò a manciate e se ne empì le tasche, poi rientrò in casa e a letto, dicendo alla bimba che potevano dormir tranquilli. E si addormentarono.
L’indomani, prima già che si alzasse il sole, venne la mamma e li svegliò.
— Su, su, bambini: bisogna andare a far legna, stamani. Prendete questi due pezzetti di pane e serbateli per mezzogiorno, quando avrete camminato e la fame dirà davvero!
La Ghita si tenne tutto il pane sotto il grembiulino, chè il fratello aveva le tasche piene di pietruzze, e si avviarono insieme col babbo e la mamma nel bosco. Quando ebbero fatto un tratto di strada, Nannino si voltò e parve guardare la capanna che ancora appariva laggiù in fondo al sentiero.
— Che cosa guardi, Nannino, e perchè ti fermi? – gli domandò il padre.
— Babbo – rispose il bambino – sul tetto c’è il mio gattino bianco che mi vuol dire addio.
— Che grullo! – interruppe la donna. – È il sole nascente che s’affaccia sopra il camino e Nanni lo piglia per un gatto bianco!
Ma il bimbo non voleva vedere la capanna; voleva vedere la seminata delle pietruzze che aveva fatto lungo la via.
Quando furono in mezzo alla selva, il padre diè un sospirone e disse:
— Bambini, fate un mucchio di fascine chè voglio accendere una bella fiammata. Fa freddo!
Nannino e Ghita ubbidirono.
Il fuoco fu acceso e quando la fiamma fu bella alta, la donna disse:
— Noi andiamo a tagliare alcune piante e voialtri fate un sonno qui accanto al fuoco fin che noi vi veniamo a prendere.
Nannino e Ghita stettero a scaldarsi fino a mezzogiorno e poi, tristi e soli mangiarono in silenzio il loro bocconcino di pan secco; ma non credevano ancora d’essere stati abbandonati perchè udivano a quando a quando i colpi dell’ascia nel bosco, come se il babbo abbattesse piante e spaccasse ceppi. Invece egli, nell’andarsene, aveva attaccato a un ramo l’arnese, che dondolante al vento batteva contro l’albero e faceva il rumore che li illudeva. Quando fu notte e capirono pur troppo che nessuno ormai tornava a riprenderli, Ghita si mise a piangere, ma il fratello la consolava dicendole che avesse ancora un poco di pazienza, ed aspettasse che si alzasse la luna. La luna sorse e come fu alta e Nannino vide che spandeva il suo candore sul bosco e per tutti i sentieri, prese per mano la sorellina sbigottita e le fece animo:
— Su, su, – diceva – non vedi, Ghita, come brillano tutti questi sassolini? Ghita, attraverso le lacrime li guardava.
— Non paiono soldi battuti ora alla zecca? – riprendeva il bambino, mentre la bimba sbarrava gli occhi e guardava quel luccichìo, senza intendere perchè dovesse consolarsi.
— Vieni con me e vedrai che ritroveremo la strada di casa.
In silenzio, facendo un passo dopo l’altro, camminarono quanto fu lunga la notte e quando il sole mattutino tornò ad affacciarsi sopra il camino della capanna, il primo raggio salutò quei due piccini che arrivavano allora dal bosco. Il babbo se li abbracciò e provò una gran gioia nel ritrovarli. La donna finse di rallegrarsi, ma in cuore formò un altro disegno malvagio. Che fosse una strega? Ah! non poteva essere la vera mamma di quei poveri bimbi, tanto buoni!
Passò un poco di tempo e tornarono nuovi giorni di squallore in cui in bocca non entrava un briciolo per sfamarsi. Anche questa volta la falsa madre aspettò che i bambini fossero a letto e quando li credè addormentati disse al marito:
— Siamo daccapo! In casa non c’è più pane. Questi moccioni hanno ritrovato la strada perchè tu non li hai voluti portare in fondo al bosco. Domattina rimenaceli e fa’ che non possano ritrovare uscita. Se ci ricascano sulle spalle questi due mangiapani, moriamo di fame tutti quanti!
Il buon uomo a quelle parole si sentiva schiantare il cuore. Fra sè diceva: — Avrei più caro che, quando c’è un tozzo di pane tu lo spartissi con loro fino all’ultimo minuzzolo! Mangiato insieme coi figliuoli ti parrebbe più buono! Invece, non ebbe coraggio di contraddire la moglie e non aprì bocca.
I bambini intanto non avevano perso una parola di quanto la mamma aveva detto, e Nannino anche questa volta, si alzò piano, piano, per andare a raccattare i sassolini, ma quando fu per aprir la porta, la trovò chiusa a paletto e gli toccò a rientrare a letto senza aver fatto la piccola provvista che li doveva salvare. Nel ributtarsi giù, accanto alla bambina: — Sta’ quieta, sorellina mia, dormi! – disse – Iddio ci penserà lui! – e fidenti nella provvidenza, i due piccini si addormentarono.
Alla mattina, prestissimo, furono svegliati ed ebbero un seccherello di pane anche più piccolo dell’altra volta e se ne andarono via, dietro al babbo e alla mamma. Cammin facendo, Nannino che non aveva pietruzze, si sbriciolava in tasca il pane e seminava i minuzzoli per la via. Ogni tanto il padre lo chiamava perchè lo vedeva rimanere addietro:
— Che fai? – gli diceva – perchè ti fermi e ti volti a guardare?
— Guardo sul tetto di casa perchè c’è il mio piccioncino che mi vuol dire addio.
— Che grullo! – gli rispondeva la donna – quel che vedi là in cima non è il tuo colombo; è il sole nascente che fa capolino sopra il camino.
Nannino però non si turbava. Sbriciolava tutto il suo pane e lo seminava in terra per ritrovare la strada di casa.
Giunti in mezzo alla selva, la mamma li prese per la mano e li condusse in un fitto d’alberi e di siepi dove nessuno di loro era penetrato mai; poi accese il fuoco, disse loro che stessero lì buoni ad aspettarla e se ne andò.
Aspetta, aspetta, intanto fecero a mezzo del pane della Ghita; e nessuno veniva.
Scese la sera, calò la notte e nessuno venne a riprenderli. La bambina piangeva e il fratello le faceva coraggio meglio che poteva, la esortava ad aver pazienza e aspettare che si alzasse la luna. La luna spuntò bella e bianca come ogni notte, e Nannino si riprese per mano la Ghita e via insieme si avviarono. Ma quando si misero a cercare i bricioli di pane, non ne trovarono neppur uno, chè tutti gli uccellini del bosco se li erano beccati.
— Come faremo, come faremo! – gridava la bimba mentre zampettava a piedi scalzi, accanto al fratello.
— Avanti!… – le rispondeva il fratello, che credeva di esser un omino e si sentiva sicuro del fatto suo – la strada la ritroveremo ugualmente.
Poveri bimbi! Invece di camminare nella direzione della capanna, giravano per viuzze tortuose e si allontanavano sempre di più. Camminarono tutta la notte e tutto il giorno di poi, fin che stanchi, sfiniti si addormentarono. Quando ebbero fatto un sonnellino, all’alba si svegliarono e si misero a cercare qualche cosa da mangiare. Gira, gira, trovarono due bacole e si contentarono di quelle. Andavano, sempre avanti e quanto più cammino facevano, più s’internavano in quel bosco senza poterne uscire. Dopo due giorni finalmente si trovarono davanti ad una casina piccina, piccina che era fatta di pane, aveva il tetto di torta e le finestre di zucchero fino.
— Mettiamoci a sedere – disse il bimbo – e mangiamo fin che ci sentiamo pieni. Io assaggerò il tetto: tu rosica la finestra, che sarà più dolce!
Così fecero.
Quando la Ghita ebbe arrotato i dentini a quella bella finestrella bianca che brillava al sole, una voce di dentro cominciò a dire:
«Rodi, rodi, topolina!
Chi è che rode la casina?»
I bimbi rispondevano
«È il vento, il venticello:
È il celeste bambinello»
e seguitavano a mangiare. Ghita ruppe un bel pezzetto di zucchero e Nannino portò via una buona fetta di torta dal tetto. Ma ad un tratto, la porta si aprì e una vecchia venne fuori tentennoni e strascicando.
I bambini ebbero tanta paura che si lasciarono cader tutto di mano. La vecchia però, dondolando il capo, prese a dire:
— Oh! che bei piccini! da dove siete sbucati? Venite in casa mia; ve ne troverete bene. – Poi se li prese per la mano e li condusse In casa.
Subito fu portato in tavola buona roba: latte, frittata dolce, mele e noci, e poi furono preparati due bei lettini in cui i due bimbi si adagiarono, allungandosi beati come fossero stati in paradiso.
Quella vecchia, però, era una strega cattiva che attirava i bambini con ghiottonerie e con lusinghe, e quella casina altro non era che una trappola con la quale li acchiappava per poi cuocerseli e farsene una scorpacciata.
Ci si può immaginare se fosse felice quando il caso le portò quei due bimbetti, che nonostante la fame e la miseria erano freschi come boccini di rosa.
Alla mattina di poi, già prima che fossero svegliati essa andò a guardarli ed accarezzarli, dicendo «che buon borbottino sarete per me!» Prese Nannino in collo, lo portò in una piccola stalla e ve lo rinchiuse, sicchè quando il bimbo si svegliò, si vide intorno un cancello e gli parve d’essere un galletto nella stia.
Come il fratello fu sistemato, la vecchia chiamò la sorellina con brutta maniera.
— Su, alzati – le diceva scuotendola – poltronaccia! Va’ in cucina, attingi l’acqua, prepara qualcosa da mangiare. Appena sarà ingrassato ben bene il tuo fratello lo mangerò. Per ora, tu pensa ad impippiarlo. Va’ è di là nella stalla.
La Ghita ebbe un grande spavento, pianse e scongiurò; ma fu inutile; bisognò che facesse quanto la vecchia ordinava.
Tutti i giorni, quella povera bambina, dovè fare buoni piatti per Nannino. Per lei non restavano che i gusci dei gamberi. Ed ogni giorno la vecchia andava a vedere il bimbo nella stalla; lo guardava da tutte le parti come avrebbe fatto con un porcellino, e gli diceva:
— Nannino, allunga il ditino perchè senta se sei grasso abbastanza! – Ma la vecchia era mezza cieca, e il bimbo, furbacchiotto, serbava qualche ossicino di pollo e lo metteva fuori dalle stecche per farle credere che era il suo ditino; sicchè quella, meravigliando che il ragazzo non facesse carne con tutto il vitto buono che essa gli dava, se ne tornava via, brontolando e lamentandosi della spesa inutile.
Però, quando fu passato un mese, disse una sera la vecchia alla Ghita:
— Svelta! Porta dell’acqua e mettine al fuoco un bel paiuolo, chè domani, sia grasso o secco, voglio mangiar Nannino lesso. E bada di metter da parte il grasso perchè dobbiamo fare anche il fritto.
La Ghita, col cuore oppresso, tirò su l’acqua per lessare il fratello. E la mattina di poi si dovè alzare prestissimo, accendere il fuoco ed appendere il paiuolo alla catena.
— Sta’ bene attenta: – le andava dicendo, intanto, la vecchia – ora fa’ fuoco nel forno, chè ci deve andar dentro il pane a cuocere.
L’altra, mentre si affaccendava per la cucina, piangeva a calde lacrime; sudava sangue per l’angoscia e diceva fra sè:
— Quanto sarebbe stato meglio se ci avessero divorato le bestie nel bosco! Almeno sarei morta con Nannino anch’io, e non avrei dovuto preparargli l’acqua bollente, nè metterlo in pentola! Dio mio, pensa tu a noialtri poveri bambini!
Ad un tratto chiamò la vecchia:
— Presto, Ghita, corri qui al forno, aiutami!
Appena la bimba si fu affacciata alla stanza: — Guarda, là dentro – ella soggiunse – dimmi se il pane è tostato a dovere. Io non ho gli occhi buoni, lo sai. Provati! E se mai tu pure non vedessi nulla, monta sull’asse: io ti spingo in fondo e così puoi girare col tuo comodo e far le cose per benino! – perchè fra sè macchinava di chiudervela dentro, quando ormai vi fosse, e di mangiarsi anche quella come un biscottino.
La bambina però aveva imparato a difendersi dalla malvagità della gente e rispose subito:
— Non ho capito bene quel che m’hai detto. Fammi vedere tu come si fa, chè dopo lo faccio io.
Quando la vecchia fu sull’asse da pane ella la spinse nel forno, chiuse lo sportello e se ne fuggì con Nannino.
— Presto, presto, fratellino – gli diceva mentre apriva lo steccato – siamo salvi, andiamo!
Nannino saltò fuori come un uccellino dalla gabbia e quando s’abbracciarono piansero per la gioia.
Ma non c’era da perder tempo.
In fretta, raccolsero quanti brillanti e perle trovarono in quella casina piccina piccina, che era fatta di pane ed aveva il tetto di torta e le finestre di zucchero, e via, a tasche piene, e se la dettero a gambe.
Cammina, cammina, arrivarono ad un gran fiume e non sapevano come fare a traghettarlo. Vide la Ghita una bell’anatrina bianca che se la nuotava in su e giù e la chiamò:
— Cara anatrina, ci prenderesti sulla schiena per farci passare dall’altra parte?
Appena udì chiamarsi dalla bimba, la bestiola venne subito da lei, nuotando lesta lesta. Prima traghettò la Ghita dopo tornò a prendere anche Nannino. Appena furono sull’altra riva, trovarono la buona strada che li condusse a casa.
Il babbo che non aveva avuto un’ora di bene, dacchè gli erano stati tolti i figliuoli, fece loro una gran festa e pianse e singhiozzò di gioia. La mamma era morta e potevano starsene tutti tranquilli.
Ora nella capanna c’erano entrate le ricchezze, e la miseria aveva sloggiato per sempre.