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I due vecchietti

Fiaba di Luigi Capuana

C’era una volta due vecchietti, marito e moglie, che vivevano poveramente. Non potevano più lavorare, e pensavano con terrore al giorno in cui avrebbero finito di mangiare quel poco messo da parte in tant’anni di fatiche e di stenti.

Si eran voluti sempre bene, eran sempre vissuti in pace, contenti di quel che guadagnavano, senza invidiare gli altri, senza desiderare niente che sorpassasse la loro modesta condizione. E così erano arrivati alla vecchiaia.

Ora però, fra le privazioni e gli acciacchi, ripensavano con dolore al bel tempo della loro giovinezza. Facendo il confronto tra quelli che erano stati e quelli che erano, al presente, quasi non si riconoscevano più. Curvi, canuti, tutti grinze, senza denti, coi piedi strascicanti, si mettevano al sole davanti la porta di casa, e stavano lì lunghe ore a guardare i bambini che facevano il chiasso.

– Ricordi, moglie mia?

– Ricordi, marito mio?

E crollavano la testa.

D’inverno andavano a letto di buon’ora; almeno nel letto stavano caldi. E anche lì, quando non potevano dormire, ricominciavano:

– Ricordi, moglie mia?

– Ricordi, marito mio?

Era di dicembre; nevicava, faceva un gran freddo. Neppure nel letto essi riuscivano a scaldarsi. Sentirono dei picchi alla porta e un lamento:

– Datemi alloggio per questa notte! Non mi fare morire in mezzo alla via!

– Apriamo? – disse la moglie.

– Apriamo.

Entrò una vecchina come loro, tutta coperta di neve, inzuppata d’acqua e inzaccherata.

– Chi siete? Dove andate?

– Sono la Fortuna; vado pel mondo.

– Siete la Fortuna? Con quei cenci? Con quelle ciabatte?

– Per non farmi riconoscere.

I due vecchietti si rallegrarono in cuor loro. La Fortuna prima di andar via gli avrebbe lasciato un bel regalo. E le fecero posto nel letto, in mezzo, perché stesse meglio.

La mattina, prima dell’alba, la vecchina era in piedi:

– Non mi chiedete niente?

Marito e moglie si consultarono, imbarazzati.

– Che chiedere? Ricchezze? Non se le sarebbero potute godere. Onori? Non sapevano che farne. Salute? Per vecchi, non stavano male. Che chiedere?

– La fanciullezza! – disse la moglie.

– Avremmo tutto con essa! – disse il marito.

– Nient’altro? – domandò la Fortuna.

– Nient’altro!

– Ecco qui.

E porse una boccettina con poche stille d’acqua limpida dentro:

– Bevete e vedrete.

I due vecchietti volevano aprir la porta per farla uscire; si voltarono; ma la Fortuna era già lontana cento miglia.

– Buon viaggio!

– E buon ritorno!

Marito e moglie si fregarono le mani dalla contentezza.

– Ora beviamo.

– Sono proprio due stille. Guarda, una per me, una per te.

– Berrò io la prima.

– No, berrò io.

Cominciarono a leticare.

– Non hai fiducia in me, marito mio?

– E tu?

– Io ti ho sempre voluto bene; ho fatto tanti sacrifizi per te. L’hai dimenticato dunque tutt’a un tratto?

– Ed io? L’hai dimenticato? Sono il marito, devo bere il primo.

– Sono donna, perciò tocca a me!

– Dividiamo le gocce.

– Dividiamole. Sarà meglio.

Le divisero e bevvero; ma continuarono a leticare.

– Io non provo niente, forse perché non me n’hai dato abbastanza!

– Neppure io provo niente. Forse quella vecchia ci ha canzonati.

– Ho sonno; andiamo a letto.

– Andiamo a letto.

E, imbronciti, si coricarono.

– Fatti più in là! Sto proprio su l’orlo.

– Io sto per cascare.

La moglie diè uno spintone, il marito un altro; il letto traballava. Avevano una forza insolita. Ah! L’acqua operava. Allora si chetarono, aspettando.

La mattina, allo svegliarsi, si trovarono diventati ragazzi. Ma non si riconoscevano.

– Tu chi sei? E che ci fai qui?

– Io sono a casa mia. E tu chi sei?

– Che t’importa? Facciamo il chiasso.

– Facciamo il chiasso.

E si misero a ruzzare sul letto, con salti e capriole. Più tardi, aprirono la porta e si trovarono nella via.

– Tu per dove vai?

– Per qua.

– Io per quest’altra parte.

Si voltarono le spalle, senza neppur salutarsi, e se n’andarono ognuno pei fatti suoi.

Il ragazzo incontrò un signore.

– Vuoi prender servizio, ragazzo?

– Che devo fare?

– Strigliare i cavalli e portarli a bere alla fontana.

Una mattina egli vide passare davanti la scuderia la ragazza, con cui aveva fatto il chiasso sul letto tra salti e capriole.

– Oh! Tu?

– Sono a servizio.

– Sei contenta della padrona?.

– Chè! Mi sgrida, mi picchia per un nonnulla.

– Anche lo stalliere mi sgrida e mi picchia per un nonnulla. Vado a cavallo però, quando vo ad abbeverare le bestie.

– Io vo in carrozza con la signora, quando porto il bambino.

– Se fossi grande, non mi picchierebbero!

– Neppur me, se fossi grande!

La padrona chiamava dalla finestra, lo stalliere chiamava dalla stalla.

– Fannullona!

– Fannullone!

E scapaccioni e strilli su in casa; e scapaccioni e strilli giù in istalla.

Pochi giorni dopo, egli vide passare davanti la scuderia la ragazza che piangeva:

– Che hai?

– La signora mi ha mandata via.

– Vado via anch’io. Andiamo insieme?

– Dove?

– Dove ci portano le gambe,

Cammina, cammina, cammina, si spersero in mezzo a un bosco. Si faceva buio, e non riuscivano a trovare la strada. Cominciarono a strillare:

– Ah, mamma mia! Come faremo?

– Perché piangete, ragazzi?

– Nonnina, dateci aiuto! Abbiamo smarrita la strada.

– Non mi riconoscete?

– Non vi abbiamo mai vista.

– Sono la Fortuna. Che volete? Chiedete e vi sarà dato.

I ragazzi si consultarono, imbarazzati.

– Che chiedere? Ricchezze? Gliele ruberebbe il primo che capitava; non si potevano difendere. Se potesse farci diventar grandi, e darci un po’ di denaro, tanto da non dover star a servizio in casa altrui!

– Nient’altro?

– Nient’altro.

– Prendete; mangiate queste due focacce, e poi schiacciate queste due noci. Vedrete.

E sparì.

Mangiarono le focacce e si addormentarono. La mattina, svegliandosi, si avvidero di esser cresciuti di una ventina d’anni almeno; ma non si riconoscevano.

– Chi siete? Che fate qui?

– Sono una boscaiola. Faccio legna. E voi?

– Sono un boscaiolo; faccio carbone.

– Ho una noce: è la fortuna.

– Ne ho un’altra anch’io.

Le schiacciarono e ne sgusciarono fuori tante monete d’oro, nuove di zecca.

– Questa è la mia dote.

– E questa è la mia.

Si sposarono, e lavoravano da mattina a sera. Lei faceva legna e lui faceva carbone. Ma era una vita dura. Pure mettevano sempre qualcosa da parte.

– Ci servirà per quando saremo vecchi.

Spesso si lamentavano:

– Che vitaccia!

E contavano i quattrini già messi da parte. Erano molti, non però ancora abbastanza da potere passar bene la vecchiezza.

– Quando saremo vecchi, ci riposeremo.

– C’è ancora tempo, marito mio.

Una notte udirono rumore attorno alla capanna, e voci cupe che dicevano:

– Tu qua; tu là; io dalla porta, tu dal tetto!

– Oh, Dio! Sono i ladri.

Marito e moglie si sentirono gelare.

Uno scassinava la porta, uno sfondava il tetto:

– Non vi muovete o siete morti! Dove sono i quattrini?

Erano più morti che vivi soltanto per lo spavento di quelle facce barbute che gli appuntavano i pugnali alla gola:

– Dove sono i quattrini?

– Eccoli lì.

I ladri fecero repulisti e andarono via.

La mattina dopo marito e moglie non avevano forza di lavorare e piangevano in mezzo al bosco:

– Poveri a noi! Come faremo?

– Che avete, buona gente? Perché piangete?

– Ah, nonnina! La notte scorsa siamo stati spogliati dai ladri!

– Non mi riconoscete? Sono la Fortuna. Chiedete e vi sarà dato.

Marito e moglie si consultarono, imbarazzati:

– Che chiedere? Il meglio sarebbe stato una tranquilla vecchiezza, con tanto da non stentare fino alla morte.

– Nient’altro?

– Nient’altro.

– Ecco qui. Mangiate queste due pere e vedrete. In questa borsa poi ci sarà sempre del denaro. Più ne spenderete e più ne troverete.

Prima che le dicessero grazie, era sparita.

Marito e moglie mangiarono ognuno la sua pera e si addormentarono. Allo svegliarsi, strascicavano i piedi. E si ricordavano di ogni cosa passata.

– Che sciocchi! Abbiamo rifatto la stessa vita! Non metteva conto. Ricordi, moglie mia?

– Ricordi, marito mio?

Erano tornati ad abitare la loro casa d’una volta.

Si mettevano al sole davanti la porta e stavano lì lunghe ore a guardare i bambini che facevano chiasso.

– Ricordi, moglie mia?

– Ricordi, marito mio?

– Che sciocchi! Abbiamo rifatto la stessa vita. Non metteva conto. Già, farne un’altra sarebbe stato lo stesso. Fanciulli, giovani, vecchi! O poveri o ricchi, s’invecchia tutti; e tutti dobbiamo morire!

Spendevano e spandevano; mangiavano bene, si prendevano ogni sorta di divertimenti, e non avevano nessun pensiero dell’avvenire; la loro borsa era sempre piena; più quattrini ne cavavano e più ce n’era. Sarebbero stati felici, se non li avesse angustiati il pensiero fisso della morte. Ogni giorno che passava, era un passo verso la sepoltura. Non se ne davano pace.

Una mattina stavano seduti, al solito, davanti la porta per godersi il sole.

– Chi sa, marito mio, se rivedremo il sole domani!

– Eh, chi lo sa, moglie mia!

Videro accostarsi una vecchina:

– Fate la carità!

– Siete più vecchia di noi; quant’anni avete?

– Gli anni miei non si contano. Non può contarli nessuno.

La guardavano sbalorditi.

– E camperete molt’altri anni ancora?

– Finché ci sarà mondo.

– Chi siete?

– Non mi riconoscete? Sono la Fortuna. Chiedete e vi sarà dato. Prima di mill’anni, non ripasserò da queste parti.

Marito e moglie si consultarono, imbarazzati:

– Che chiedere? Gioventù, ricchezze, tutto passava, tutto andava via. Se non si potesse morir mai! L’unica felicità sarebbe questa.

– Se non chiedete altro; vi sarà concessa.

– Non chiediamo altro.

– Ecco qui.

E porse una boccettina con poche gocce di un liquore rosso dentro, che pareva sangue.

– Bevete, e vedrete.

Prima che potessero dirle grazie, era sparita.

– Berrò io il primo.

– No, berrò io.

– Sono il marito; devo bere il primo.

– Sono donna, perciò tocca a me.

– Facciamo come l’altra volta; dividiamo le gocce.

– Dividiamole; sarà meglio.

Le divisero e bevvero. Si sentirono diventare quasi di acciaio.

– Oh, che felicità, moglie mia! Non morremo mai!

– Oh, che felicità, marito mio! Non morremo mai!

Passarono più di cento anni. Marito e moglie erano sempre gli stessi, curvi, canuti, tutti grinze, senza denti, coi piedi strascicanti, e ogni giorno stavano lunghe ore davanti la porta, al sole, a guardare i bambini che facevano il chiasso:

– Ricordi, moglie mia?

– Ricordi, marito mio?

Ma non erano però così contenti come avevano creduto di dover essere. Tutto cangiava attorno a loro, tutto moriva attorno a loro. Non si potevano affezionare a nulla e a nessuno, che già se lo vedevano portar via dalla morte.

Passarono più di mille anni. Marito e moglie erano sempre gli stessi, impresciuttiti; ma ora, sedendo davanti la porta al sole, non badavano più ai bambini che facevano il chiasso; non ripetevano più: Ricordi, marito mio? Ricordi, moglie mia? Sbadigliavano:

– Oh, Dio, che noia!

– Sempre la stessa storia!

Non ne potevano più. Avevano visto tante e tante cose, tanta gente, tanti avvenimenti: guerre, fami, pestilenze, feste d’ogni sorta, cose belle, cose tristi, tante, tante, tante! Ma, infine, gira e rigira un continuo nascere, un continuo morire; gira e rigira, sempre quella! Non ne potevano più; si sentivano sazii di esser vissuti tanto, stanchi di vivere ancora.

– Che facciamo, moglie mia! Io vorrei morire.

– Anch’io. Chiamiamo la morte. Se non la chiamiamo, non viene.

E la chiamarono ad alta voce:

– O Morte! O Morte!

Accorse, scheletrita, con la falce in mano.

– Che volete da me?

– Vogliamo morire.

– Non posso toccarvi; la Fortuna non vuole.

Si sentirono stringere il cuore.

Passarono altri cento anni. Marito e moglie erano sempre gli stessi, impresciuttiti; ma ora non si vedevano più neppure avanti la porta per godersi il sole: erano sazii anche di esso che appariva tutte le mattine dalla stessa parte e andava a coricarsi tutte le sere nella stessa parte.

Il sole però non si annoiava mai, non si stancava mai!

– Noi no, è vero, moglie mia?

– Sì, è vero, marito mio!

– E la Fortuna non si vede più!

– Dovrà ripassare. Ripasserà.

L’attesero altri cent’anni. Finalmente rivenne e non al solito da vecchina, ma sotto l’aspetto di bellissima donna, con lunga veste cosparsa di oro, di perle, di diamanti. Non la riconobbero.

– Chi siete?

– Sono la Fortuna. Chiedete e vi sarà dato.

– Ah Fortuna, Fortuna! Non vogliamo nulla; vogliamo morire!

– Va bene; uno oggi e subito subito, l’altro fra cent’anni.

– Perché non insieme?

– Non si può; uno oggi, subito subito, l’altro fra cent’anni.

– Marito mio, per amor tuo, scelgo di morire io fra cent’anni.

– Moglie mia, per amor tuo, cedo il posto quest’oggi.

– Non siete più a tempo! A rivederci fra altri cento anni.

E per cento anni, marito e moglie leticarono continuamente:

– La colpa è tua. A quest’ora saremmo bell’e morti e dormiremmo in pace sottoterra!

– La colpa è tua! Ah! Perché non abbiamo lasciato andare le cose pel verso loro.

Contavano i giorni, le ore, i minuti, e leticavano fin sul conto di essi, tanto smaniavano di veder arrivare la Fortuna.

– Eccomi. Chiedete e vi sarà dato.

– Ah, Fortuna, Fortuna! Non vogliamo niente: vogliamo morire; non ne possiamo più!

– Vado a chiamare la Morte.

I vecchietti, contentissimi, imbandirono una bella tavola, e indossarono gli abiti di festa. La gente, meravigliata, domandava:

– Che vi accade, vecchietti?

– Oggi le cose tornano ad andare pel verso loro. È il verso giusto, tenetelo a mente!

E caddero bocconi, freddi stecchiti.

La Morte era arrivata senza ch’essi se ne accorgessero.

Fiaba oscura, nespola dura

La paglia e il tempo ve le matura.

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