Fiaba di Luigi Capuana
C’era una volta un vecchio contadino che abitava in una grotta in cima a un monte. Nessuno sapeva di dove fosse venuto e perché vivesse colà solo solo, lavorando da mattina a sera il terreno attorno. Vi seminava legumi e fiori secondo le stagioni. E a chi gli domandava: – Che cosa ne fate dei fiori? – rispondeva:
– I legumi per lo stomaco, i fiori per la vista.
Se poi qualcuno gli chiedeva un fiore:
– Legumi sì, fiori no.
– Perché, compare?
– Perché ogni fiore è una pietra preziosa, che va aggiunta al mio tesoro.
– E dove lo tenete nascosto il vostro tesoro?
– Nella grotta, ma c’è l’incanto. Per vincere l’incanto ci vuol l’uomo senza braccia.
– È pazzo il compare!
Sentendolo parlare a quel modo, dicevano tutti così. Un giorno si presentarono lassù due cacciatori.
– Compare, c’è selvaggina da queste parti?
– Non ne ho mai vista, compari.
– Quanti bei fiori! Che ve ne fate?
– I legumi per lo stomaco, i fiori per la vista.
– Se voi permettete, ne cogliamo qualcuno.
– Provatevi, vedrete.
– Ahi! Ahi!
Si erano punti maledettamente, e scotevano le dita dal gran dolore.
– Siamo stanchi. Consentite che ci riposiamo un po’ nella vostra grotta?
– Volentieri, compari. Ma…
Grotta aperta,
Non c’è letto né coperta.
C’è soltanto un po’ di strame,
Ed un sasso per guanciale.
– Ci accomoderemo alla meglio.
Appena entrati nella grotta, invece di buttarsi a dormire, quei due cominciarono a picchiare nelle pareti per scoprire dove il vecchio nascondeva il tesoro di cui avevano sentito parlare; e, ad ogni picchio, rispondeva un eco prolungato da far capire che là dietro, c’era un gran vuoto. Il tesoro doveva essere nascosto nelle viscere del monte. Nessuna buca; e quantunque le pareti, specialmente quella di fondo, sembrassero poco spesse, la pietra di cui erano formate era resistentissima. Occorreva lavorare di palo e di piccone. Per quella volta, bastava l’essersi accertati che il vecchio contadino non era pazzo, come credeva la gente. Si stesero per terra e si addormentarono.
Parecchi giorni dopo, ecco di nuovo quei due, ma questa volta travestiti da muratori, con un palo e un piccone ognuno.
– Abbiamo finito.un lavoro laggiù e siamo stanchi. Consentite, compare, che ci riposiamo un po’ nella vostra grotta?
– Volentieri… Ma…
Grotta aperta,
Non c’è letto né coperta.
C’è soltanto un po’ di strame,
Ed un sasso per guanciale.
– Ci accomoderemo alla meglio.
Appena entrati nella grotta, invece di buttarsi a dormire, quei due cominciarono a dare, ora coi pali, ora coi picconi, alla parete di fondo, e in men di mezz’ora vi avevano già praticato una larga buca, da potervi passare la testa.
– Che cosa vedi?
– Buio pesto.
– Lascia guardare a me.
– Che cosa vedi?
– Una luce, quasi cominci ad aggiornare.
– Lascia guardare a me.
– Che cosa vedi?
– Meraviglie! Oro, diamanti, e altre pietre preziose!
Si diedero accanitamente ad allargare la buca; e di tratto in tratto si fermavano per guardare, spalancando gli occhi. Ora, si vedeva a perdita d’occhio una fila di stanze illuminate da una luce più bella di quella del sole, e alle pareti, tal splendore di riflessi d’oro, di diamanti, di altre pietre preziose di ogni colore, che la vista n’era abbagliata e non poteva tollerarlo.
– Entriamo; entra tu il primo.
– No, tu!
Avevano paura. Entrarono insieme, tenendosi per mano come due bambini, per farsi coraggio. Passavano da maraviglia in maraviglia, stupiti. Poi uno disse:
– Riempiamoci almeno le tasche!
– Sì, riempiamoci le tasche!
E quando se le furono riempite ben bene, prendendo a manate diamanti, rubini, topazi dai mucchi che ingombravano il suolo, si voltarono per tornare addietro. Ma allora quelle pietre preziose cominciarono a pesare, a pesare da impedir loro di muovere un passo.
– Come facciamo?
– Buttiamone via un po’!
Mossero pochi altri passi, e il peso si aggravò di nuovo.
– Buttiamone via un altro po’!
Ma fatti pochi altri passi, daccapo! Quando furono vicini alla buca, nessuno dei due aveva la più piccola pietra preziosa. Stavano per uscir fuori; ed ecco agitarsi per aria due nodosi bastoni, mossi da mani invisibili, che cominciarono a picchiar sodo su le spalle, su le braccia, su le gambe dei malcapitati.
– Ahi! Ahi! Aiuto! Aiuto!
Scapparono fuori della grotta.
– Che cosa è stato, compari?
– Niente. Sognavamo che ci bastonassero.
– Sognavate certamente.
Potevano dire la verità? Intanto si tastavano braccia e spalle.
– Perché ridete, compare?
– Cacciatori, muratori:
Eran dentro ed or son fuori.
Li aveva riconosciuti! E andarono via mogi mogi.
Allorché raccontarono quel che era accaduto, nessuno voleva crederli. Tutti ripetevano:
– È pazzo! Dice che vincerà l’incanto l’uomo senza braccia!
– È possibile? Dove si trova l’uomo senza braccia?
– Bisogna cercarlo.
E che cosa pensarono? Uno dei due doveva fare il sacrifizio di lasciarsi segare le braccia. Preso il tesoro, sarebbero diventati così ricchi, che colui che più non aveva braccia avrebbe potuto mantenere cento persone per vestirlo ed imboccarlo.
E avuto in mano il tesoro, spartivano soltanto?
– Chi farà il sacrificio, prenderà per due. Lo fai tu?
– No, tu.
– Tiriamo a sorte, a pari e dispari. Io dispari e tu pari.
E buttarono le dita.
– E se poi tu mi neghi la parte? Io non potrò farti niente – disse colui che doveva lasciarsi segare le braccia.
– M’impreco da me: se manco alla parola, all’istante il tesoro mi si muti in gusci di chiocciola!
Andarono da un chirurgo.
– Voglio segate le braccia.
– Siete matto! Vi danno forse fastidio?
– Mi danno fastidio.
– Coi matti non m’impiccio: rivolgetevi a un altro.
Visto che nessun chirurgo voleva prestarsi a segar le braccia a un uomo sano, decisero di ricorrere ad una Strega, e andarono a trovarla, di sera.
– Voglio segate le braccia.
La Strega, senza rispondere una parola, gli fe’ cenno di nudarsele, prese da un barattolo un unguento nero e puzzolente e gliele unse torno torno, nel punto in cui dovevano esser segate. E le carni cominciarono a bruciare, a fumigare.
Colui gridava, si contorceva dall’atroce dolore.
– Coraggio, amico! Coraggio!
A quest’altro, intanto, brillavano gli occhi dalla gioia, vedendo compirsi il portento. Le braccia erano cascate per terra: i moncherini rimasti non fumigavano più.
– E per merito vostro, nonna?
– Mi bastano quelle braccia.
Le raccolse da terra e le ripose in una cassetta.
Era già notte quando essi uscirono dalla casa della Strega. Non bisognava farsi scorgere da nessuno. Se la gente arrivava a sapere dell’uomo senza braccia, gli sarebbe corsa dietro fino alla grotta in cima al monte dov’era nascosto il tesoro. Perciò non aspettarono che si facesse giorno per andare lassù.
– Quanti legumi, compare! Quanti bei fiori!
– I legumi per lo stomaco, i fiori per la vista.
– Perché non regalate mai un fiore?
– Ogni fiore è una pietra preziosa che va aggiunta al mio tesoro. È nella grotta incantata. Per vincere l’incanto ci vuol l’uomo senza testa.
– Come senza testa? Una volta dicevate: ci vuol l’uomo senza braccia.
– Ho detto sempre senza testa. Avete sentito male.
– Non ce n’importa. Siamo stanchi. Consentite che ci riposiamo nella vostra grotta?
– Volentieri, compari… Ma…
Grotta aperta,
Non c’è letto né coperta.
C’è soltanto un po’ di strame
Ed un sasso per guanciale.
– Ci accomoderemo alla meglio.
Ritrovarono, buttati in un canto, i pali e i picconi abbandonati là mesi addietro; ma della buca nessuna traccia. Esitavano, un po’ scombussolati dalla risposta del vecchio.
– Furbo il vecchiaccio! – esclamò colui con le braccia. – Ha detto a quel modo per impedirci di tentar di rompere l’incanto.
E cominciò a dar colpi di palo alla porta nello stesso punto ove si era richiusa la buca. La parete non cedeva: sembrava di bronzo.
Allora l’altro ebbe l’idea di appoggiarvisi con le spalle, e di far forza puntando i piedi al suolo. La parete crollò.
Questa volta essi non ebbero più nessuna esitanza di entrare, né temerono di esser bastonati di nuovo all’uscita; l’incanto era stato rotto dall’uomo senza braccia. E corsero fino in fondo, dove l’altra volta non erano arrivati. Le pietre preziose erano tali e tante, che essi non sapevano decidersi da che parte rifarsi per riempirsi le tasche. – Questa! – No, quest’altra! – No, quella là!
– Non dubitare. Ritorneremo domani, domani l’altro e altri giorni e mesi ancora. Ora i padroni siamo noi. Non c’è più incanto.
– Ricorda il patto! Ricorda il patto!
– Scelgo il meglio per te.
Questo non era vero; le pietre più belle e più grosse se le metteva in tasca lui. Esse pesavano, ma non come l’altra volta, da impedir loro di muovere un passo.
Sul punto di uscire dalla grotta, esitarono un po’, ricordando le legnate di quel giorno; ma non vedendo balenare bastoni per aria, rientrarono nella grotta, e dietro le loro spalle la porta si richiuse tutt’a un tratto ruvida, quasi di bronzo, com’era prima.
– Avete dormito bene, compari?
– Come su un letto di rose.
– Eh? Dunque per romper l’incanto ci vuole l’omo senza testa?
– Chi l’ha detto? Avete sentito male. Senza gambe ci vuole!
– Siete allegro, compare!
Scendendo la strada del monte i due cominciarono a bisticciarsi.
– Tu m’hai truffato!
– Guarda: le tue tasche son più piene delle mie!
– Rimettiamo tutto in comune, e dividiamo pietra per pietra. Due parti per me, una per te.
Vuotate per terra le tasche, colui con le braccia si mise a contare rapidamente.
– Dici uno… dici due… dici sei, diciassette, diciotto, diciannove e venti. È una tua parte. Dici uno, dici due… e venti. È un’altra tua parte.
Ma contando per sé contava esattamente: – Uno, due, tre… – E così prendeva il doppio.
Quando stese la mano per rimettere in tasca al compagno le pietre preziose; gettò un grido quasi gli si fosse rattrappita dallo spavento, vedendo mutarsi in gusci di chiocciole tutte le pietre preziose che aveva davanti.
Allora l’omo senza braccia non ne volle più sapere di costui. Andò a trovare un suo parente e gli raccontò ogni cosa.
– E tu hai veduto e toccato con mano le pietre preziose?
– Sì, le ho vedute e le ho toccate la prima volta.
– E poi sono diventate gusci di chiocciole?
– Sì, poi son diventate gusci di chiocciole.
– E ti sei fatto segare le braccia per guadagnare quel tesoro?
– Per rompere l’incanto ci voleva l’uomo senza braccia.
Non la finiva con le domande, tanto gli sembrava incredibile quel racconto. Tutte quelle pietre preziose fattegli riluccicare quasi sotto gli occhi accendevano intanto l’avidità di costui.
– Tentare non nuoce.
E accompagnò l’uomo senza braccia in cima al monte.
– Dov’è la grotta?
– Era qua; come mai non si trova?
Gira, rigira, non vedevano altro che massi, piante selvatiche e massi ancora.
– Dov’è la grotta? Te la sei sognata.
– Eppure son certo che era qui, e vi abitava un vecchio contadino che coltivava legumi e fiori, e non regalava mai un fiore a nessuno, perché, diceva, ogni fiore è una pietra preziosa pel suo tesoro.
E il poverino piangeva, pensando che si era fatto segare inutilmente le braccia.
Per un pezzo nessuno del paese ebbe il capriccio di salire in cima al monte. C’era, non c’era più il vecchio? Lo avevano quasi dimenticato.
E se qualcuno accennava al tesoro incantato nella grotta lassù, si sentiva rispondere:
– E infatti lo presero, l’omo senza braccia e quei dai gusci di chiocciola!
Quegli era morto di dolore da parecchi anni. E prima di lui era morto il suo compagno impazzito, che portava le tasche piene di gusci di chiocciole e voleva venderli per diamanti.
Ma un giorno quel paese fu messo sossopra da un inatteso avvenimento.
Andava attorno per le vie una povera donna, vestita a bruno, stracciata, magra scheletrita, con un bambino in collo, più magro e scheletrito di lei:
– Fate la carità a questa infelice creaturina! È nata senza braccia! Fate la carità!
Da principio nessuno le aveva badato, le davano una monetina, una fetta di pane, qualche frutta secca, e non volevano neppur guardare il bambino che era denudato fino alle spalle dove avrebbero dovuto essere attaccati i braccini e non si vedevano neppure i moncherini.
Poi qualcuno disse, scherzando:
– Ecco chi romperà l’incanto del tesoro lassù!
Lo ripeté un altro, poi un altro.
– E chi sa che non sia vero?
Parecchi ebbero la curiosità di andare a vedere se il vecchio contadino viveva ancora. Lo trovarono che zappava il terreno, forte, robusto e allegro, quasi tanti anni non fossero passati su lui.
– Quanti legumi! Quanti fiori!
– I legumi per lo stomaco, i fiori per la vista.
– E il tesoro?
– È incantato nella grotta. Per rompere l’incanto ci vuol l’omo senza braccia.
– Un grande tesoro?
– Il più grande che sia al mondo!
La comitiva tornò in paese gongolante di gioia. Lungo la strada avevano ideato un progetto per arricchire tutti. Dovevano dare alloggio e vitto a quella poveretta col bambino monco di braccia: e appena quei due si fossero un po’ rimessi in carne, accompagnarli lassù dal vecchio:
– Ecco l’omo senza braccia!
Quell’altro se le era fatte segare, ma era nato e cresciuto con le braccia. Questi no. Il tesoro era dunque destinato a lui. Ci voleva poco a capirlo.
E fu una gara per alloggiare e nutrire mamma e figliuolo. Ad evitare insidie e rancori, essa andava ad abitare e desinare a turno da una casa all’altra. In meno di un mese, mamma e bambino non si riconoscevano più; lei pienotta, il bambino roseo, grassoccio, un amore.
La poveretta, che ignorava il motivo di tanta carità, benediceva l’ora e il momento in cui aveva messo il piede in quel paese, e non sapeva spiegarsi perché ai suoi ringraziamenti tutti rispondessero:
– Dobbiamo anzi ringraziarvi noi!
Ognuno pensava alla parte del tesoro che gli sarebbe toccata; giacché ormai era stabilito tra tutti che il tesoro doveva venir diviso in parti uguali: la mamma e suo figlio prenderebbero per quattro, com’era giusto.
Oh se avessero potuto far crescere il bambino a vista d’occhio! Invece, disgraziatamente, dovevano attendere che fosse diventato omo, come aveva detto il vecchio di lassù. E perciò tutto il paese viveva in continua trepidazione per la salute del bambino. Avrebbero voluto tenerlo tra la bambagia per non farlo sciupare. E se accadeva qualche piccola novità, la notizia passava di bocca in bocca:
– Ha tossito!
– Ha i dolorini!
– Ha messo un dente!
– Ha la rosolia!
E, di mano in mano che veniva su, le trepidazioni aumentavano:
– Non correre!
– Non ti scalmanare!
– Bada di non cadere!
E se per caso inciampicava, tutti gli erano a torno:
– Ti sei fatto male?
– Dove ti duole?
Peggio ancora quando fu divenuto un bel giovinotto. Ognuno si credeva in dovere di tenerlo d’occhio, di sorvegliarlo, di ammonirlo più che se fosse stato proprio figlio. Fortunatamente il giovane era buono d’indole, e non si spazientiva. Veniva trattato bene in ogni casa, vestito, ripulito a spese di tutti. E siccome sin dai primi anni si era visto trattar così, non si maravigliava di nulla, e non domandava neppure alla mamma perché ella e lui soltanto godessero in paese quella vita privilegiata.
Con l’età intanto gli cresceva anche l’intelligenza, e il vedersi privo di braccia, tronco inutile per sé e per gli altri, lo rendeva così malinconico e taciturno da impensierire tutto il paese, che appunto dalla disgrazia di lui si attendeva di diventar ricco senza lavorare, per via del tesoro.
In ogni casa, da mattina a sera, non si faceva altro che almanaccare quanto sarebbe toccato a ognuno. Ricchi e poveri, signori e contadini, vecchi, donne, fanciulli… non ci doveva essere nessuna differenza; parti uguali, prelevate le doppie parti della mamma e del figlio. E se questi volesse di più, gli si darebbe senza fiatare.
C’era una specie di congiura fra tutti gli abitanti per mantenere il segreto. Se la gente dei paesi vicini avesse trapelato qualcosa del tesoro incantato, avrebbe potuto accorrere, stabilirsi là… Non era facile impedirlo; e allora, bisognava fare troppe parti; ché! ché! E parlavano del tesoro sotto voce anche tra loro.
Vedendo divenire il giovinotto ogni giorno più triste, non sapevano che cosa inventare per svagarlo, per divertirlo.
– Che vi manca, figliolo?
– Niente!
– O dunque? Non sorridete, non cantate più; eppure siete tanto ben voluto da tutti.
– Il bene è un’altra cosa. Non mi lagno di loro.
– Di che vi lagnate?
– Della sorte.
– Zitto! Non sapete quel che vi dite. Voi fate la vita di un Re; anche meglio di quella di un Re. C’è chi pensa ad alloggiarvi, a vestirvi, a imboccarvi… Che cosa potreste desiderare di più?
– Un paio di braccia!
– Zitto! Non sapete quel che vi dite. Vi toccherebbe di lavorare come tutti noi, arrostirvi al sole, bagnarvi alla pioggia, e vi toccherebbe a patire qualche volta anche la fame!
– Non m’importerebbe nulla, pur di avere le braccia!
– Andiamo! È una fissazione. Mangiate, bevete, dormite e non pensate ad altro.
Qualcuno soggiungeva:
– Non so cosa pagherei per essere come voi!
Quegli scoteva la testa, e si allontanava malinconico e taciturno. Parlava poco anche con sua madre; sembrava che gliene volesse perché lo aveva partorito senza braccia, quasi la colpa fosse stata di lei.
E accadde quel che doveva accadere: si ammalò. Deperiva a vista d’occhio, con gran terrore di tutti. Gli mancavano ormai pochi mesi per compire i ventun anni per diventare omo, come aveva detto il vecchio e come ripeteva ogni volta che mandavano qualcuno ad interrogarlo.
Il vecchio era sempre lassù, tra i suoi legumi e i suoi fiori, arzillo, allegro, quasi gli anni non avessero nessun potere su lui!
– Per vincere l’incanto ci vuol l’omo senza braccia!
E l’omo senza braccia minacciava di morire prima di arrivare ai ventun anni! Tutti i medici del paese gli stavano attorno. L’osservavano, lo palpavano, si consultavano tra loro. Chi ordinava una medicina, chi un’altra. Gli facevano prendere pillole, ingoiare intrugli di ogni sorta. E lui, pur sottomettendosi pazientemente ad eseguire quelle ordinazioni, ripeteva di tanto in tanto:
– La vera medicina sarebbe un bel paio di braccia!
– Zitto! Non sapete quel che vi dite!
Il paese sembrava in lutto, più che se in ogni casa ci fosse un malato gravissimo. S’interrogavano desolatamente:
– Come va?
– Sempre peggio!
– E che ne dicono i dottori?
– I dottori, a quel che pare, ne sanno meno degli altri.
– Che disgrazia se morisse prima del tempo! Che disgrazia!
E quando fu notato un piccolo miglioramento, tutti sembravano quasi impazziti dalla gioia.
– Una settimana ancora, e saremo ricchi più del Re!
– Come va?
– Meglio! Assai meglio!
– Tre giorni ancora, e la nostra fortuna sarà fatta!
La mattina in cui l’omo senza braccia compì finalmente ventun anni, la gioia di quella gente non ebbe più limiti. Spari, scampanii, canti, abbracci, baci. Tutti per le vie, e poi a processione dietro l’uscio della casa dove quel giorno mamma e figliolo erano ospitati.
Quel povero diavolo era sbalordito; la sua mamma più di lui; non sapevano spiegarsi quel gran chiasso.
– Al monte! Alla grotta!
E si avviarono, portandolo sulle braccia, in trionfo.
– Al monte! Alla grotta!
I ragazzi, quantunque ignorassero che cosa si andasse a fare lassù, saltando, scapricciandosi in capriole, avanti; e dietro uomini, donne, anche coi bambini in braccio, vecchi, e questi apparivano più lesti degli altri, non ostante l’età; l’idea di esser ricchi tra pochi istanti avea lor rafforzato quelle gambe che ieri si reggevano male.
Erano così impazienti di arrivare, che per poco non credevano a un malefizio per cui si allungasse la strada di mano in mano ch’essi avanzavano.
E quando scòrsero il vecchio che zappava e non si voltava neppure, quasi fosse sordo e non udisse i loro gridi di gioia, si fermarono meravigliati di trovare soltanto piante di legumi e non un solo fiore.
– Salute, compare!
– Salute, signori miei.
Allora soltanto egli seppe perché lo avevano ospitato, vestito, nutrito per tant’anni con tanta cura. Non era stata dunque carità, ma sordido interesse. Infatti gli dicevano:
– Divideremo in parti uguali; tu e tua madre, però, prenderete ciascuno per due.
– Chi fa i conti senza l’oste,
Gli convien farli due volte.
– Perché dite così, compare?
– M’intendo da me.
Si erano affollati davanti alla grotta; avrebbero voluto entrare tutti insieme. Ma il vecchio disse:
– Prima deve entrare lui solo; altrimenti il fondo della grotta non si apre.
E l’omo senza braccia fu lasciato inoltrare solo.
Lo videro appoggiarsi con le spalle alla parete; videro farsi un grande spacco dietro, di lui, e uscirne tale splendore da abbagliare gli occhi. Fu un istante; la parete si richiuse. L’omo senza braccia era sparito, e il vecchio insieme con esso.
Trascorsero parecchie ore di ansiosa aspettazione. Tutta quella gente non rifiatava. Si guardavano negli occhi interrogandosi. La mamma dell’omo senza braccia pareva istupidita da quel che aveva udito e visto. Con gli sguardi fissi verso il fondo della grotta, ripeteva sottovoce:
– Figliuolo mio! Figliuolo mio!
Tutt’a un tratto, la parete cadde giù e la folla si precipitò dentro le grotte che si internavano nelle viscere del monte in lunghissima fila illuminate da debole luce.
Dapprima a tutti era parso di non vederci bene per la mezza oscurità. Poi la delusione fu immensa; quelle pareti che dovevano essere incrostate di oro e di pietre preziose erano rozze, affumicate, coperte qua e là di un po’ di muschio verde, giallo, rossiccio che non poteva illudere nessuno.
– E l’omo senza braccia?
– Sarà in fondo, in fondo. Il tesoro è là certamente. Ne avrà già preso possesso.
Ma più andavano innanzi e più la delusione cresceva. Nella grotta in fondo, neppure quel po’ di muschio alle pareti! Rozzi massi sporgenti, buche fonde, e suolo umido e scivoloso…
– E l’omo senza braccia? E le pietre preziose del tesoro?
– Sarà laggiù in fondo; il tesoro è là certamente. Ne avrà già preso possesso.
E allora, proprio di laggiù, in fondo in fondo, videro avanzarsi l’omo… non più senza braccia. Ne aveva due e le agitava trionfalmente, folle di gioia, e le gettava al collo di sua madre, stringendosela forte al cuore.
Eran proprio le braccia che la Strega aveva segato a quell’altro.
– E il tesoro? Il tesoro?
– È questo: due belle braccia per lavorare!
Avrebbe voluto abbracciare gli altri, ma tutti gli voltarono le spalle.
– Tante spese, tante cure… Ed era finita così!
Chi la vuol cruda, chi la vuol cotta;
Chi non la vuole me la riporti.