Fiaba di Luigi Capuana
C’era una volta un giardiniere che aveva una figlia cèca e un po’ storpia fin dalla nascita. La mamma era morta dandola alla luce, e il povero vedovo aveva dovuto mettersi in casa una vecchia donna, perché badasse alla disgraziata. La balia l’aveva tenuta con sé fino ai dieci anni. Poi, una mattina, gliel’aveva riportata.
– Perché? – domandò il padre.
– Perché non la posso soffrire più. Da due mesi in qua, non fa altro che cantare certe nenie così lamentose, da far venire la malinconia perfino al sassi. Il vicinato brontolava: «Malannaggio la cèchina e chi l’alleva!». Mio marito…
– Va bene – la interruppe il giardiniere; – mettetela a sedere là, accanto a l’uscio.
E appena la balia fu andata via, la bambina cominciò a cantare lamentosamente; pareva che piangesse.
– Che cosa canti, figliuola mia?
– Canto la mia mala ventura. Ho gli occhi e non ci vedo; ho le gambe e quasi non posso camminare!.
– C’è chi è peggio di te, figliuola mia. Tu hai tuo padre che ti vuol bene, e tanti fiori nel giardino.
– Se mio padre m’avesse voluto bene, avrebbe piantato il fiore che rende la vista; se mio padre m’avesse voluto bene avrebbe innestato l’albero il cui frutto raddrizza le gambe.
– Chi t’ha detto queste sciocchezze, bambina mia?
– Giacché sono sciocchezze, lasciatemi cantare!
E riprese la sua nenia; metteva malinconia anche ai sassi.
Il giardiniere andò a trovare una vecchia che abitava poco lontano.
– Volete servire la mia figliola che è cèca e storpia? Vi darà poco da fare.
– Mi darete da mangiare, da bere, da dormire, e un bel mazzo di fiori ogni mattina.
– Che volete mai farne dei fiori?
– Non deve importarvene.
– E sia: da mangiare, da bere, da dormire e un bel mazzo di fiori ogni mattina.
La cèchina si lasciava vestire, lavare, pettinare dalla vecchia senza dire neppure una parola; poi quando questa, nelle belle giornate, la conduceva per mano a sedere in un angolo del giardino, e, nelle giornate cattive, presso la finestra della rustica casetta, quasi potesse godersi dai vetri lo spettacolo della campagna circostante e dei monti lontani, la cèchina le diceva:
– Lasciatemi sola.
– Ti annoierai, cuore mio!
– Lasciatemi sola; voglio cantare.
– Ti racconterò una bella fiaba.
– Le belle fiabe non sono per me.
E cominciava la sua lamentosa cantilena. Durava così ore e ore, senza riposarsi un solo momento. Alla fine, dalla stanchezza, chinava la testa su una spalla e s’addormentava.
Il giardiniere era contento che sua figlia fosse servita bene; ma si sentiva stringere il cuore udendo sin di fondo al giardino quella nenia lamentosa, della quale non aveva potuto mai capire le parole.
– Ascoltate bene voi – si raccomandava alla vecchia, quando essa scendeva giù a prendere il quotidiano mazzo di fiori.
– Prima di mettersi a cantare mi manda sempre via.
– E di questi fiori che ve ne fate?
– Non deve importarvene.
Il giardiniere era incuriosito. Appena avuto il mazzo, la vecchia diceva:
– Vado e torno subito.
Infatti andava e tornava subito, senza che a lui fosse riuscito di vedere dove andasse, né di dove tornasse, quantunque più volte avesse tentato di spiarla. Appena richiuso dietro a sé il cancello, la vecchia seguiva il muro di cinta del giardino, svoltava il canto e spariva.
Da principio il giardiniere non ci aveva badato; ma dopo alcuni mesi era entrato in sospetto di qualche brutto mistero.
E il sospetto divenne certezza il giorno che la cèchina non cantò più.
– Perché non canti più, figliuola mia?
– Non posso cantare, babbo. Se mi provo, sento qualcosa alla gola, come una mano che mi stringa e mi voglia soffocare.
Il giardiniere che non aveva mai posto attenzione all’aspetto della vecchia, quel giorno la guardò bene.
– Sembra una Strega! – disse tra sé e sé.
Era tutta grinze, con i capelli bianchi tutti arruffati, gli occhi orlati di rosso sotto folte e ispide sopracciglia, il naso adunco, la bocca sdentata e le mani scarne e nodose. Proprio una Strega! Come non se n’era accorto prima? E pensò di licenziarla per vedere se, andata via lei, la cèchina potesse riprendere a cantare. Così muta gli sembrava più triste di quando si sfogava con le nenie che gli stringevano il cuore.
– Sentite, comare: non ho più bisogno di voi. Eccovi un bel regalo, tornate a casa vostra; e più amici di prima come suol dirsi.
La vecchia non rispose niente; fece un fagotto dei suoi quattro stracci, se lo mise sotto braccio, e uscì senza neppur salutarlo.
Appena partita lei, la cèchina chiamò:
– Babbo, babbo, vieni a sentirmi cantare!
– Ho indovinato dunque! – pensò il giardiniere.
E stette ad ascoltare la figlia: questa volta udì bene le parole. La cèchina cantava:
– Attendo, attendo, nella buia notte,
Ed apro l’uscio se qualcuno batte.
Dopo la mala vien la buona sorte…
Il resto non lo ricordo più!
– Chi ti ha insegnato questa canzone?
– Nessuno.
– E chi attendi nella buia notte?
– Non lo so.
– Come ti son venute in testa cantilena e parole?
– All’improvviso; una mattina… E non potevo frenarmi.
Il giardiniere era stupito.
– Babbo, perché non pianti il fiore che rende la vista?
– Figliola mia, non c’è giardiniere al mondo che lo conosca.
– Babbo, perché non innesti l’albero il cui frutto raddrizza le gambe?
– Albero e fiore te li sei sognati, forse; non ne ho sentito mai parlare.
Allora la cèchina riprese sottovoce:
– Attendo, attendo nella buia notte –
e cantato un bel pezzetto, chinò la testa su una spalla e s’addormentò.
Da quel giorno in poi, a mezzanotte, notte per notte, accadeva un fatto strano, si sentiva un gran picchio all’uscio. Il giardiniere balzava da letto, si affacciava alla finestra e domandava:
– Chi è? Chi cercate?
C’era il lume di luna e ci si vedeva benissimo; ma non si scorgeva anima viva davanti a l’uscio né nel giardino.
– Hai sentito picchiare, figliola mia?
– No, babbo.
– Da parecchie notti a mezzanotte in punto?
– Ti sarà parso, babbo.
– Dev’essere quella Stregaccia! – pensò il giardiniere.
E andò a cercarla per dirle: – Volete smettere, Stregaccia? – Non la trovò: né le vicine seppero dirgli dove si fosse ridotta ad abitare. Risposero:
– Era pazza! Non parlava con nessuno. Filava tutta la giornata. Soltanto, quando le domandavano: «Che cosa ne fate del filato?» brontolava stizzosa: «Una cordicina per impiccarvi!» Ci metteva paura. È meglio che se ne sia andata di qui. Con le pazze non si sa mai!…
Il giardiniere, tornando a casa impensierito, si era rammentato per strada che un giorno sua moglie gli aveva detto: – Ho trovato un bel gomitolo di refe davanti al cancello del giardino. Lo tengo in serbo, se mai chi l’ha smarrito venisse a cercarlo. – Era passato quasi un anno, e allora ella lo aveva adoperato per cucire il corredino della creaturina che portava in seno. – Finita l’ultima gugliata – gli aveva raccontato sua moglie – sai? È venuta una vecchia: «Avete trovato un gomitolo di refe?». «Sì, ora è quasi un anno; ma l’ho già adoprato. Se volete, ve lo pago.» «Nemmeno il tesoro del Re basterebbe a pagarlo!» E mi ha voltato le spalle sdegnata. – Marito e moglie quel giorno ne avevano riso. E da quando la povera donna era morta di parto, il giardiniere non si era più rammentato del gomitolo; la risposta di quelle donne gliel’aveva fatto ritornare in mente. Ah! la Stregaccia filava, filava tutta la giornata? Il gomitolo era certo di lei, e conteneva una malìa! Infatti la bambina era nata cèca e storpia perché il suo corredino era stato cucito con quel refe!
Nessuno ora avrebbe potuto levarglielo di testa! A casa trovò la figliola che piangeva:
– Ah, babbo, babbo! Hanno picchiato a l’uscio e non ho fatto in tempo ad aprire. Scesi, alla meglio, tastoni le scale, ma chi aveva picchiato era già andato via!
– Sarà stato qualcuno che voleva dei fiori; tornerà.
– No, babbo!
Attendo, attendo, nella buia notte,
Ed apro l’uscio se qualcuno batte.
Dopo la mala vien la buona sorte…
– Era venuta, babbo! Forse non tornerà più!
E la poverina si struggeva in lacrime. Il giardiniere non sapeva come consolarla.
– Zitta – le disse. – Ti dò un bel mazzo di fiori. Li colgo freschi freschi apposta per te.
La cèchina, avuto in mano il mazzo, cominciò a tastarlo, a brancicarlo tutto, e poi a strapparlo fiore per fiore. Compiuto lo scempio, lo buttò via.
– Perché hai fatto questo, figliola?
– Perché quel fiore non c’è.
– Quale?
– Quello che rende la vista.
Il giardiniere si mise a riflettere:
– Se lei ne parla, vuol dire che questo fiore esiste davvero!
E per ciò ogni mattina coglieva i fiori più belli e più rari, e fattone un gran mazzo lo portava alla figliola.
Ma erano ormai passati parecchi mesi, e la cèchina, avuto in mano il mazzo, lo tastava, lo brancicava tutto e poi, strappàtolo fiore per fiore, lo buttava via, dicendo con accento, desolato:
– Quel fiore non c’è!
Il giardiniere, intanto, non desisteva dal portargliene ogni mattina uno nuovo. Aveva riflettuto che la Stregaccia, volendo un mazzo di fiori al giorno, doveva sapere quel che faceva. Certamente – come dubitarne più? – il portentoso fiore capace di ridonare la vista esisteva, ma non lo conosceva nessuno. Bisognava affidarsi al caso. E la Strega, volendo un mazzo di fiori al giorno, aveva tentato d’impedire che la cèchina riacquistasse la vista. Ahimè! Forse quel fiore era stato colto e portato via dalla Strega in uno dei tanti mazzi ricevuti! E se non rifioriva più? E se era di quelli che fioriscono una sola volta all’anno? Non sapeva darsene pace. Se avesse avuto la stregaccia tra le ugne, l’avrebbe ridotta a brani!
Una mattina, trin, trin, trin, si ferma al cancello del giardino una carrozza tirata da quattro cavalli con la sonagliera, e ne scende un bel giovane, vestito di stoffa di seta intramata di oro, con un gran cappello ornato di piume, collare di pizzi, e pizzi alle maniche che gli coprivano le mani.
– Siete voi il giardiniere?
– Per servirla, mio bel signore.
– Cogliete tutti i fiori che avete, e riempitemene la carrozza.
– Tutti no, mio bel signore. I più freschi e i più belli devo serbarli per la mia figliola.
– Che ne fa la vostra figliuola?
– Li tasta, li brancica, li strappa e li butta via.
– È quella lì?
– Sì, mio bel signore.
La ragazza che aveva già sedici anni, seduta all’ombra di un albero, cantava tristamente.
Il giovane era rimasto incantato a guardarla e ad ascoltarla. Rosea, coi capelli d’oro, con le mani fini, affusolate, con le pupille coperte da un velo bianco, la cèchina intenta a cantare non si era accorta della presenza di quei che si erano fermati a poca distanza.
– È cèca?
– Cèca e storpia, mio bel signore!
– Che disgrazia!
E pareva non respirasse dalla commozione e dalla meraviglia di tanta bellezza.
– Che cosa canta?
– Dice:
Attendo, attendo, nella buia notte,
Ed apro l’uscio se qualcuno batte.
Dopo la mala vien la buona sorte…
– Il resto, la poverina, non lo ricorda più. Ora vo a cogliervi i fiori.
Il giovane signore risalì, pensoso, nella carrozza, e quando il giardiniere tornò con una gran bracciata di fiori di ogni sorta, ricevette quattro grosse monete d’oro che gli fecero sgranare gli occhi.
Il giorno dopo, ecco, trin, trin, trin, la carrozza tirata da quattro cavalli con le sonagliere. Ne esce una vecchia signora riccamente vestita che domanda:
– Siete voi il giardiniere?
– Per servirla, padrona mia.
– Cogliete tutti i fiori che avete, e riempitemene la carrozza.
– Tutti no, padrona mia. I più freschi e i più belli devo serbarli per la mia figliola.
– Che ne fa la vostra figliola?
– Li tasta, li brancica, li strappa e li butta via.
– È quella li?
– Sì, padrona mia.
La ragazza, seduta accanto all’uscio, cantava tristamente. Anche la vecchia signora era rimasta incantata a guardarla e ad ascoltarla. Ma non domandò: che cosa canta? Fece cenno al giardiniere di andar a cogliere i fiori, e quando questi gliene portò una gran bracciata che riempì la carrozza, gli diè quattro grosse monete d’oro che gli fecero sgranare gli occhi.
– Se continua ogni giorno così, la mia figliola avrà presto una buona dote.
Intanto ogni notte, a mezzanotte, si udiva un gran picchio all’uscio.
– Hai sentito, figliola mia?
– No, babbo; ti sarà parso.
– È certamente la Stregaccia! – egli pensava. – Se la incontro, l’accoppo!
Ma chi veniva a picchiare, di giorno, giusto quando lui non c’era?
Decise di nascondersi e di stare in vedetta. Disse alla figlia:
– Vado al mercato. Se picchiano, non aprire.
E rimpiattato dietro una siepe da dove poteva veder bene, stiè ad attendere. Passa un’ora, ne passano due, nessuno! Stava per uscire dal nascondiglio, quando, a un tratto, che cosa vede? Vede un giovinotto, vestito da contadino, che si accosta cautamente all’uscio della casetta e picchia tre volte. Il giardiniere sente la voce della cèchina: – Chi è? Chi cercate? – e poi la risposta del giovinotto: – Il più bel paio di occhi del mondo!
– Avete sbagliato uscio!
– Non ho sbagliato!
Al giardiniere gli pareva e non gli pareva di riconoscere quel viso. L’aveva veduto un’altra volta? Sì, sì. Non era il bel signorino venuto in carrozza due giorni addietro, che aveva voluto tanti fiori e gli aveva regalato quattro grosse monete d’oro? poteva mai darsi? E se era, perché travestito da contadino? Intrigato da questo mistero, e vedendo che quegli stava per andar via non ricevendo più risposta dalla cèchina, il giardiniere si fece avanti.
– Chi siete? Chi cercate?
– Vorrei allogarmi per garzone; non chiedo salario.
– Se è così, ti prendo volentieri. Il tuo mestiere?
– Lo stesso del vostro.
E intanto, al giardiniere, più lo guardava e più gli pareva di non ingannarsi. La rassomiglianza era perfetta.
– Stiamo a vedere! – pensò.
Lo menò in fondo al giardino, gli ordinò quel che doveva fare, e lui andò a trovare la figliola.
– Perché piangi, figliola mia?
– È venuto uno a beffarmi. Ha picchiato tre volte all’uscio, e alla mia domanda: «Chi siete? Chi cercate?» ha risposto: «Cerco il più bel paio d’occhi del mondo». Ed io sono cèca!
– Non angustiarti, figliola!
– Chi canta nel giardino?
– Il garzone che ho preso poco fa.
– È allegro, a quel che pare!
– Chi lavora cantando sente meno la fatica. Se ti dà fastidio, lo faccio tacere.
– Anzi; ha una bella voce.
Ma non appena la cèchina, cessato di piangere, si mise a cantare anche lei la solita nenia, quell’altro tacque. Il giardiniere lo trovò intento ad ascoltare.
– Così tu lavori?
– Questo lamento mi stronca le braccia!
– Devi abituarti ad udirlo: è la cèchina, mia figlia, che canta, se tu non lo sai.
– Come si fa ad abituarsi? Spezza il cuore.
Intanto, al giardiniere, più lo guardava, e più gli pareva di non ingannarsi. La rassomiglianza era perfetta. E, cogliendo i fiori pel mazzo da portare alla figlia, lo interrogava.
– Dov’eri allogato prima?
– Dal giardiniere del re.
– E perché sei andato via?
– Perché al Reuccio è piaciuto così.
– Senza nessuna ragione?
– Senza nessuna ragione.
– Uhm!
Il giardiniere pensò di andare a informarsi se colui avesse detto la verità. Trovò il palazzo sossopra; gente che andava, gente che veniva, tutti affaccendati, e con certi visi!
– Che cosa è accaduto? Qualche disgrazia?
– Il Reuccio è sparito da parecchi giorni, e non si sa dove sia. Il Re e la Regina lo piangono per morto. Doveva sposare la figlia del Re di Francia; ma dal momento in cui una zingara disse ai Re: «Se il Reuccio sposa costei, muore lo stesso giorno delle nozze. Chi dovrà egli sposare glielo dirò in un orecchio, se Vostra Maestà me lo permette» e glielo disse in un orecchio col consenso del Re – sin da quel momento le trattative furono rotte, e il Reuccio divenne così malinconico, che non si riconosceva più. Tutt’a un tratto è sparito, e non si sa dove sia.
C’era tanta confusione, che il giardiniere poté entrare nel giardino reale senza che le guardie glielo impedissero.
– Dite, compare: avete mandato via un giovane garzone?
– Non ho mandato via nessuno – rispose il giardiniere del Re.
– È venuto uno ad allogarsi da me, sono giardiniere anch’io e vuol darmi a intendere che prima stava a garzone da voi e che l’avete licenziato perché così piacque al Reuccio.
– Non gli date retta! Sarà un poco di bono.
– Quanti bei fiori avete qui!
– Voglio regalarvene un mazzo. Vi darò anche dei semi, se li gradite.
– Grazie!
Trattandosi di fare un regalo a persona del mestiere, colui aveva scelto i fiori più belli e più rari.
Tornato a casa, il povero padre trovò di nuovo la figliola che piangeva.
– Perché piangi, figliola mia?
– È venuto un’altra volta quel tale a beffarmi. Ha dato tre picchi a l’uscio, e alla mia domanda: «Chi siete? Chi cercate?» ha risposto: «Cerco il più bel paio d’occhi del mondo». Ed io sono cèca.
Stizzito, il giardiniere non pensò neppure a dare alla figlia il magnifico mazzo di fiori ricevuto in regalo, e corse in fondo al giardino, dove il garzone annaffiava le aiuole cantando.
– Ti ho visto e ti ho udito, sai? Perché ti diverti a far piangere mia figlia, canzonandola: Cerco il più bel paio di occhi del mondo?
Questi faceva il grullo, come se il suo padrone non parlasse con lui. E cantava:
– Attendi, attendi nella buia notte,
Ed apri l’uscio se qualcuno batte.
Dopo la mala, vien la buona sorte,
E viene con colui che non sa l’arte.
Queste ultime parole erano quelle che la cèchina non ricordava più? Il povero giardiniere rimase. Gli pareva di sognare, gli pareva di sentirsi portar via il cervello da un colpo di pazzia. E non sapeva che cosa dovesse fare: se dirgli: – Tu non sei un contadino, sei quel signore venuto qui con la carrozza a quattro cavalli con le sonagliere! La canzone lo cantava chiaro: – Colui che non sa l’arte! – E con lui era dunque venuta la buona sorte per la cèchina?
– Se parlo, forse guasto – rifletté.
E tornò addietro, dalla figliola che ancora piangeva:
– Ecco un bel mazzo di fiori. Sono del giardino del Re.
La cèchina lo tastò, lo brancicò e poi strappàtolo fiore per fiore, lo buttò per terra:
– Quel fiore non c’è!
Il fiore che dava la vista non lo avevano neppure nel giardino reale! E il giardiniere si era lusingato che potesse trovarsi, per caso, tra quelli del mazzo.
Intanto più egli guardava il giovane e più gli pareva di non ingannarsi; la rassomiglianza era perfetta. Quale mistero c’era sotto? Pel bene della sua figliola, rifletté di non esitare ancora – se parlo forse guasto! – e appunto stava per rivolgere al giovane una domanda, quando, trin! trin! trin! ecco la carrozza tirata da quattro cavalli con le sonagliere, e la vecchia signora dell’altra volta, riccamente vestita.
– Giardiniere, avete fiori?
– Quanti ne volete, padrona mia.
– Coglieteli tutti e riempitemene la carrozza.
– Tutti no, padrona mia. I più freschi e i più belli devo serbarli per la mia figliola.
E maliziosamente aggiunse:
– Là c’è il garzone. Dia i suoi ordini a lui. In questo momento ho da fare.
Voleva vedere quel che sarebbe accaduto tra il garzone e lei. Girando dietro la siepe, gli sarebbe stato facile anche ascoltare. Così fece. E quel che vide e udì lo colmò di stupore.
– Non ha ancora aperto l’uscio?
– Non l’ha ancora aperto. Come sente lamia risposta: «Cerco i più begli occhi del mondo» si mette a piangere.
– Picchiate domani all’alba. Vi aprirà.
– E il fiore?
– Sta per spuntare. Spuntare, crescere e sbocciare sarà quasi un solo momento: ma bisogna che non abbia altri fiori attorno. Coglieteli e portateli nella mia carrozza. Intanto appena il giardiniere e la cèchina saranno andati a letto, spargete davanti a l’uscio questa polvere per stornare la malìa della Strega. Essa viene ogni notte, a mezzanotte, e picchia. Se la ragazza le aprisse, rimarrebbe cèca per tutta la vita. Ed ora addio. Non mi rivedrete più. Siate felice, Reuccio! Chi bene fa, bene riceve; tenetelo a mente.
Il giardiniere non credeva ai suoi occhi e ai suoi orecchi!
La vecchia signora doveva essere una Fata! E quello era il Reuccio che non si sapeva dove fosse!
Si allontanò in punta di piedi, trattenendo il respiro, col cuore che, dalla gioia, pareva volesse scoppiargli nel petto. E corse ad abbracciare la povera cèchina che cantava malinconicamente:
– Attendo, attendo nella buia notte.
– Babbo, perché mi abbracci così forte?
– Perché io ti voglio bene, figliola mia!
Non le disse altro. Pensava:
– Se parlo, forse guasto!
Quella notte, a mezzanotte, il solito forte picchio a l’uscio.
– Picchiano, babbo!… È la buona sorte!
– Ti è parso, figliola mia!
– Lasciami andare ad aprire, babbo! Se va via, non torna più!
Si udì un altro picchio, più forte.
– Hai sentito, babbo?
– Ti è parso, figliola mia.
La cèchina saltò giù dal letto nonostante che le gambe la reggessero a stento; saltò giù anche il padre e la trattenne.
– Ah, padre scellerato! Non vuoi che apra alla buona sorte!
Si udì un terzo picchio più insistente.
La cèchina voleva andare ad aprire a ogni costo, dibattendosi.
Allora scoppiò un grand’urlo:
– Ahi! Ahi!
Il giardiniere aperse la finestra e vide la Strega in fiamme, che si arrotolava per terra e bruciava come un tizzo. Dopo pochi minuti, ne rimaneva appena un po’ di cenere.
– Chi gridava, babbo? Sento puzzo di bruciaticcio.
– Non è niente; il garzone ha dato fuoco a un po’ di paglia. Riaddormentati, figliola!
Non voleva spaventarla.
Ma nessuno dei due prese sonno. E di tanto in tanto la cèchina si lamentava sotto voce, credendo che suo padre dormisse:
– Era la buona sorte! E mi ha impedito di aprirle!
All’alba un picchio fortissimo faceva rintronare la casetta. Questa volta la cèchina saltò giù, zitta zitta, dal letto, indossò alla meglio la veste, si trascinò, tastoni, con le gambe storpie, per le scale, e giunta dietro a l’uscio domandò:
– Chi siete? Chi cercate?
– Cerco i più begli occhi del mondo!
– I più miseri occhi eccoli qui!
E spalancò l’uscio disperatamente.
Si sentì passare ripassare, lieve lieve, su le palpebre qualcosa di fresco, di vellutato, e sùbito le parve che un violento chiarore la ferisse. Diè un grido e cadde svenuta tra le braccia del garzone giardiniere, che era proprio il Reuccio. Quando la cèchina, non più cèca, riaprì le palpebre, egli vide splendere davvero i più begli occhi del mondo; sembravano due soli!
Al grido era accorso il padre. Figuriamoci la sua gioia, vedendo la figliola che guardava attorno stupita, e non potea dire una sola parola! Ma dovettero metterla a sedere perché si reggeva male su le gambe storte. Si era trovato, finalmente, il fiore che rendeva la vista! Si sarebbe trovato pure l’albero il cui frutto raddrizzava le gambe; non se ne poteva più dubitare.
Ora, con tutto quel che era accaduto, al giardiniere non passava per la testa che il Reuccio potesse voler sposare sua figlia. E sentendogli dire: – Questa sarà la mia Reginotta – fu preso da spavento, temendo che il Re e la Regina non lo avrebbero mai permesso, e che ne sarebbe venuto danno a lui e alla sua figliola, se il Reuccio si fosse ostinato.
Infatti il Re e la Regina, appreso dalla stessa bocca del Reuccio la decisione di sposare la figlia del giardiniere, montarono in grandissima collera.
Invano il Reuccio rivelò quel che gli aveva predetto in segreto la zingara, che poi era fata Ragno, perché il giorno era ragno e la notte bellissima Fata. Invano raccontò che egli, avendo un giorno impedito a un contadino di ammazzare un ragno, la notte dopo si era visto comparire davanti la bellissima Fata venuta a ringraziarlo, perché quel ragno era lei. Gli aveva promesso: Ti farò sposare i più begli occhi del mondo e…
Re e Regina non lo lasciarono neppure finir di parlare.
– O Reuccio, o giardiniere: scegli!
– Giardiniere, Maestà.
E per i più begli occhi del mondo rinunciò alla corona.
Fata Ragno però non aveva pensato d’indicargli l’albero il cui frutto raddrizzava le gambe. E gli aveva detto: – Addio, non ci rivedremo più!
– Dove rintracciarla?
Coltivando fiori e piante, il Reuccio spesso la invocava:
– Ah fata Ragno, fata Ragno! Vi siete scordata di me!
Ma una mattina, il Reuccio guarda in un cantuccio di aiuola e vede prodursi un portento. Da una zolla nuda spuntavano due foglioline e poi un gambo e altre foglie, su, su; e il gambo si rafforzava, diventava tronco; e i rami si distendevano, e tra le fronde tanti bei fiori rossi che cascavano e lasciavano scorgere frutti piccoli come bacche che, sotto gli occhi maravigliati del Reuccio, si ingrossavano, prima verdi, poi gialli di un colore d’oro scuro, e maturavano in pochi istanti… E tra i rami, luccicavano al sole i fili di argento di un largo ragnatelo; e nel centro armeggiava con le gambe un grosso ragno verde, tessendo e ritessendo.
Il Reuccio non stiè più alle mosse, colse quanti più frutti poté e corse dalla cèchina che stava ancora a letto, quantunque il giorno fosse inoltrato. Ella aveva voluto che continuassero a chiamarla così: le faceva piacere ricordarsi della sua disgrazia ora che sapeva di avere i più begli occhi del mondo.
– Cèchina, su, mangia questo frutto, e vedrai!
– Oh, come è amaro!
La Cèchina, addentatolo, lo buttò via.
– Mangiane almeno uno solo; te ne prego! uno solo!
La cèchina fece uno sforzo, per contentare il Reuccio, e non aveva terminato di mangiare uno di quei frutti color di oro scuro, che sentì un delizioso formicolìo alle gambe, e poi lunghi stiramenti… e poi più niente. Era guarita; aveva le più belle gambe diritte del mondo!
La notizia di questo secondo portento giunse fino agii orecchi del Re e della Regina.
– Ma dunque quella cèchina era davvero una gran bellezza?
– Ma dunque quella cèchina era davvero protetta da una Fata?
– Andiamo a vedere.
– Andiamo; ma senza farci conoscere.
E si travestirono da mendicanti.
– Fate la carità a due poveri vecchi! Sono due giorni che non mangiamo!
Al lamento accorse la cèchina e aperse il cancello.
– Entrate ed attendete un istante.
Tornò di lì a poco con pane ed altro:
– Tenete, ristoratevi. Queste monete vi serviranno pei vostri bisogni.
E così dicendo, metteva in mano del Re e della Regina due monete d’oro per ciascuno.
– Siete voi la Reginotta?
– Se fossi Reginotta, non starei qui, ma a palazzo reale. Mio marito non è più Reuccio; è giardiniere.
– Sono stati cattivi il Re e la Regina.
– Che ne sapete voialtri? Potevano far peggio e non lo hanno fatto.
Il Re e la Regina si guardarono negli occhi. Non era soltanto bellissima, ma anche buona. E si sentirono intenerire.
Intanto si era accostato il Reuccio umilmente vestito da giardiniere. A quella vista, dovettero fare un grandissimo sforzo per contenersi.
– Grazie, figlioli! Il cielo ve ne renda merito.
E si affrettarono ad andar via.
– Poverini! – esclamò la cèchina. – Non mangiavano da due giorni. Non ti dispiacerà che gli ho dato quattro monete d’oro, quelle tue.
– Hai fatto bene. Vieni a vedere che fiorita, questa mattina! Sembra che tutte le aiuole siano in festa per noi.
La vera festa fu più tardi, quando – trin! trin! trin! – si fermarono al cancello due carrozze tirate da otto robusti cavalli con le sonagliere. Erano le carrozze reali.
Al vedere discendere il Re e la Regina, il Reuccio si turbò.
– Siete voi il giardiniere?
– Sì, Maestà.
– Datemi il più bel fiore del vostro giardino.
Il Reuccio, gongolante di gioia, prese per mano la cèchina:
– Eccolo qui, Maestà.
Fu così che la cèchina diventò Reginotta,
– Ed io? Rimarrò qui solo? – disse il giardiniere.
– C’è posto anche per voi nel palazzo reale.
La sposa ebbe tanti doni, ma il più ricco fu quello del Re: un bel ragno di pietre preziose per ricordo di fata Ragno.
Stretta la foglia, larga la via,
Dite la vostra, che ho detto la mia.