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Fiabe di Hans Christian Andersen Fiabe per bambini

Il folletto serralocchi

Fiaba di Hans Christian Andersen

Nessuno al mondo sa tante novelle quante ne sa Serralocchi. Quello sì, ne sa di belle! E come le racconta!

Verso sera, quando i bambini sono ancora seduti a tavola, composti, o pure quieti quieti sui loro panchettini, capita Serralocchi. Sale la scala senza far rumore, perchè ha le scarpe di feltro; apre la porta pian pianino… e sssst! Spruzza negli occhi dei bambini un po’ di latte dolce: — oh, uno spruzzettino appena, ma quanto basta perchè non possano più tener gli occhi aperti. Per ciò non lo vedono mai. Poi guizza dietro ad essi, soffia loro dolcemente sul collo, e allora incominciano a sentire il capino pesante. Ma non fa già loro alcun male, perchè Serralocchi vuol molto bene ai bambini. Soltanto, vuole che stiano quieti, come bisogna per ascoltare le novelle; e quieti non istanno sin che non sono a letto.

Quando i bambini dormono, Serralocchi siede sul loro lettino. È un follettino elegante Serralocchi: ha una giubba di seta, ma è impossibile dire di che colore sia, perchè cangia dal rosso al verde al turchino, a seconda dei movimenti. Sotto ogni braccio porta un ombrello: l’uno, tutto dipinto a figurine, lo apre sopra ai bambini buoni, e allora sognano tutta la notte le più stupende novelle; sull’altro, non c’è dipinto niente del tutto; e Serralocchi lo apre sopra ai bambini che hanno fatto le bizze, e questi dormono come sassi, stupidamente, e quando si destano la mattina non hanno sognato nulla di nulla.

Ora sentiremo come il folletto. Serralocchi venisse ogni sera, per tutta la settimana, a trovare un bambino, che aveva nome Hjalmar, e che cosa gli raccontasse. Sono sette novelline, perchè sette sono i giorni della settimana.

lunedì

«Senti,» — disse Serralocchi la sera, quand’ebbe messo Hjalmar a letto: «ora darò mano agli addobbi.»

Tutti i fiori che erano nei vasi divennero grandi alberi, alti alti, e intrecciarono i rami sotto al soffitto della stanza e lungo le pareti, così che la stanza parve trasformata in un bellissimo boschetto. Tutti, anche i più piccoli ramoscelli, erano coperti di fiori, ed ogni fiore era più bello di una rosa, ed aveva un profumo così dolce, così dolce, che faceva venir l’acquolina in bocca, tale e quale come la marmellata. Gli aranci e i mandarini luccicavano come l’oro, e c’erano torte tanto piene di frutta, ch’erano lì lì per iscoppiare. Ah, che bellezza! Ma proprio in quel momento, un gemito straziante uscì dal cassetto del tavolino, dov’era il quaderno di scuola di Hjalmar.

«Che mai può essere?» — disse Serralocchi; andò al tavolino, ed aperse il cassetto. Era la lavagna presa da convulsioni, perchè nel problema s’era ficcata un’operazione sbagliata, e i numeri cercavano di scappar via. Povera lavagna! pareva che volesse farsi in pezzi; e la pietra romana, attaccata al cordoncino, spiccava certi salti e dava certi strattoni, da sembrare un piccolo can barbone che volesse correre in aiuto del problema. Ma aiutarlo non poteva. Un gran piangere e lamentarsi faceva anche il quaderno di calligrafia di Hjalmar: era proprio una pena sentirlo! In ogni pagina, le maiuscole stavano l’una sotto l’altra, in capo linea, ed ognuna teneva per mano la sua minuscola: quelli erano i modelli. Dopo venivano alcune altre lettere, che pretendevano di somigliare tal quali alle prime; e queste, le aveva scritte Hjalmar; ma pendevano tutte da un lato, come se inciampassero nella linea segnata a matita, sulla quale dovevano star ritte, e parevano lì lì per cadere.

«Vedete?» — diceva il modello: «Così dovreste stare, inclinate da quella parte. Su via! datevi lo slancio per bene!»

«Magari potessimo!» — rispondevano le maiuscole di Hjalmar: «Ma non abbiamo forza, siamo troppo stente, troppo deboli…»

«E allora bisogna prendere l’olio di merluzzo!» — disse Serralocchi.

«Oh, no, l’olio! no, l’olio!» — gridarono; e subito si tennero ritte, dure dure, in posizione militare, ch’era una bellezza vederle.

«Oggi non ho tempo di raccontare novelle,» — disse Serralocchi: «bisogna che comandi loro gli esercizii. Uno, due! Uno, due!» — e così fece marciare allineate tutte le lettere, che sfilarono belle diritte, in posizione impeccabile, come dev’essere lo stato maggiore di un quaderno di calligrafia. Parevano tanti modelli!… Ma quando Serralocchi andò via, e Hjalmar, la mattina dopo, guardò il quaderno, eran tornate stente e rattrappite come prima.

martedì

Appena Hjalmar fu a letto, Serralocchi lanciò sui mobili della stanza il suo spruzzettino magico, e immediatamente i mobili cominciarono a chiacchierare tra loro; parlavano tutti insieme e tutti parlavano di sé, eccettuata la sputacchiera, la quale taceva, irritata che fossero tutti così pieni di vanità, da non parlare che di se stessi, da non pensare che a se stessi, senza alcun riguardo per lei, che se ne stava modestamente in un canto, pronta a servire il primo che capitasse.

Sopra il cassettone era appeso un quadro in cornice dorata, rappresentante un paesaggio. C’erano vecchi alberi alti alti, e fiori che smaltavano il prato, e un largo fiume che scorreva lungo la foresta e passava dinanzi a molti castelli, sin che poi sarà andato a gettarsi nel mare.

Serralocchi spruzzò leggermente il quadro col suo spruzzettino magico, e gli uccelli incominciarono a cantare, i rami degli alberi ad agitarsi, e le nuvole a rincorrersi a traverso il cielo, così che si vedevano passare sul paesaggio le loro ombre.

Allora Serralocchi alzò il piccolo Hjalmar sino all’altezza della cornice, mise i piedi del bambino nel quadro, proprio dove l’erba era più folta, e là lo lasciò. Il sole gli splendeva sul capo, a traverso ai rami degli alberi, e Hjalmar corse in riva al fiume e andò a sedere in una barchetta ch’era alla riva. La barchetta era dipinta di bianco e di rosso, con le vele che scintillavano come l’argento; e sei cigni, ognuno dei quali aveva al collo una collana d’oro ed una bella stellina azzurra in fronte, la trascinarono lungo la grande foresta, dove gli alberi raccontavano di ladroni e di streghe, e i fiori ripetevano quello che le farfalle e i piccoli elfi loro amici avevano detto.

Magnifici pesci con le squame d’oro e d’argento nuotavano dietro alla barchetta; tal volta davano un balzo e spruzzavano l’acqua dentro; e uccelli rossi e turchini, piccoli e grandi, correvano dietro alla barca in due lunghe file; i moscerini danzavano, e i maggiolini facevano: Zum! zum! zum! Tutti correvano dietro a Hjalmar, perchè tutti avevano qualche storia da raccontargli.

Quello era un vero viaggio di piacere! In certi punti, il bosco era fitto e tenebroso; in altri, sembrava un magnifico giardino, pieno di sole e di fiori. C’erano grandi palazzi di cristallo e di marmi preziosi, e su di ogni terrazzo stava una principessina; e tutte erano bambine che Hjalmar conosceva benissimo, perchè aveva giocato tante volte con loro.

Ciascuna gli tendeva la mano e gli porgeva il più bel cuoricino di zucchero candito che il pasticciere abbia mai venduto; e Hjalmar, passando, afferrava tutti quei cuoricini. La principessina teneva forte, e a ciascuno ne restava un pezzetto: alla principessa, il più piccino; a Hjalmar, il più grande. In ogni palazzo stava di guardia un principino. Bastava che sguainasse la piccola spada d’oro, perchè piovesse uva passa e soldatini di stagno: quelli erano principi!

Talora Hjalmar passava a traverso boschi e giardini; tal altra a traverso ampii mercati o città popolose. Arrivò anche alla città dove stava la sua balia, quella che lo aveva portato in collo quand’era piccino piccino, e ch’era stata sempre tanto buona con lui; e la balia lo salutò con la mano e col capo, e gli cantò la canzoncina ch’ella stessa aveva composta e mandata a Hjalmar:

Io t’ho voluto tanto bene e tanto,

che a venir via mi s’è spezzato il core.

La notte ti ho cullato col mio canto,

e il giorno t’ho allevato col mio amore.

L’amor t’ho dato e il sangue delle vene,

pensa, bambino, se ti voglio bene!

T’ho dato il latte e tutto l’amor mio,

oh, pensa se per te non prego Iddio!

E tutti gli uccelli cantavano insieme, e tutti i fiori danzavano sullo stelo; e i vecchi alberi scotevano il capo, come se il folletto Serralocchi avesse raccontato anche a loro le sue novelle!

mercoledì

Come scrosciava la pioggia! Hjalmar la sentiva anche nel sonno; e quando Serralocchi aperse una finestra, l’acqua arrivava sino al davanzale. Fuori, s’era formato tutto un lago, e una nave maestosa era ancorata proprio dinanzi alla casa.

«Se vuoi salpare con me, mio piccolo Hjalmar,» — disse Serralocchi, «questa notte possiamo viaggiare in paesi stranieri, ed essere di ritorno per domattina.»

E Hjahnar si trovò improvvisamente sulla tolda della magnifica nave, vestito coi panni della domenica. Il tempo si fece subito bello: salparono per le vie della città, svoltarono all’angolo della cattedrale… e finalmente si trovarono nel mare aperto. Avanti avanti… Perdettero di vista la terra, e raggiunsero un branco di cicogne, che venivano anch’esse dal paese di Hjalmar e viaggiavano verso i paesi caldi: le cicogne volavano tutte in fila, una dietro l’altra, ed eccole già lontane lontane! Una, però, era così stanca che quasi le ali non la reggevano più; era l’ultima l’ultima della fila: ben presto rimase a dietro di un buon tratto, e alla fine cadde, ad ali aperte, sempre più giù, sempre più giù: scosse le penne altre due o tre volte, ma non servì. Oramai, toccava con le zampe il sartiame del bastimento: scivolò giù lungo una vela, e pum! — cadde sulla tolda.

Il cameriere delle cabine la prese e la mise nella stia con i polli, le anitre e i tacchini. La povera cicogna si trovava imbarazzatissima in quella compagnia.

«Ma guarda che tipo!» — dicevano i polli.

Il tacchino si gonfiò tutto, più che potè, e domandò alla cicogna chi fosse; le anitre camminarono all’indietro, dicendo tra loro: «Qua qua ci ha da capitare! qua qua!»

La cicogna raccontò loro dell’Africa infocata, e delle piramidi, e dello struzzo che corre il deserto come un cavallo selvaggio; ma le anitre non capivano nulla di tutto ciò, e si dicevano l’una all’altra:

«Siamo o no tutte d’accordo che è una testa vuota?»

«Ah, sì, sì! È una testa vuota, proprio!» — disse il tacchino, e fece la ruota. La povera cicogna rimase in silenzio, pensando alla sua Africa.

«Che gambe lunghe e magre son mai codeste vostre! Come stecchi, sono davvero perfette!» esclamò il tacchino: «Ditemi, in cortesia, quanto vi costano al metro?»

«Qua, qua! senti qua!» — ghignarono tutte le anitre; ma la cicogna fece mostra di non udire.

«Fareste bene a ridere anche voi, in vece,» disse il tacchino, «perchè l’uscita era delle mie, e non mancava di spirito. Ma forse era troppo astrusa per voi. Sì, non ha l’intelligenza molto pronta,» — disse poi, vòlto ai polli ed alle anitre: «Faremo meglio a divertirci tra noi.»

Fece la ruota, ingoiò e gridò: «Glu, glu, glu!» — e le anitre risposero: «Qua qua! gheg, gheg, gheg!» — e le galline schiamazzarono. Giudicavano così spiritosi i proprii scherzi!…

Ma Hjalmar andò alla stia; aperse la porticina dietro, e chiamò la cicogna; e la cicogna lo seguì, saltellando, sulla tolda. Oramai, s’era riposata, e fece un cenno a Hjalmar come per ringraziarlo. Poi spiegò le ali, e prese il volo verso i paesi caldi; ma le galline razzolarono, le anitre schiamazzarono e il tacchino divenne rosso paonazzo dalla rabbia.

«Quanto a voialtri, saprete domani a vostre spese quel che bolle in pentola!» — disse Hjalmar; e così dicendo si destò, e si trovò disteso nel suo lettino. Ah, che viaggio gli aveva fatto fare Serralocchi quella notte!…

Giovedì

«Ti dirò una cosa:» — fece Serralocchi «non devi aver paura se ti faccio vedere un topino,» — e avanzò la mano con la bella bestiola. «È venuto ad invitarti a nozze. Questa notte due topini sposano. Abitano sotto il pavimento della dispensa di casa tua. Si dice che sieno alloggi molto ricercati quelli.»

«Ma come potrò passare per il buchino che mena alla casa dei topi, sotto il pavimento?» — domandò Hjalmar.

«Per questo, lascia fare a me!» — disse Serralocchi: «Ti farò diventar piccino.»

Toccò Hjalmar con il solito spruzzetto magico, e il fanciullo cominciò a restringersi, a rattrappirsi sin che divenne lungo un dito appena, più tosto meno che più.

«Ora, ti puoi far prestare la divisa di un soldatino di stagno: credo che ti andrà benissimo, e la divisa fa sempre buon effetto in società.»

«Sì, certo!» — disse Hjalmar.

E in un baleno fu vestito come il più azzimato soldato di stagno.

«Se la signoria vostra degnasse prender posto nel ditale della sua signora mamma, io avrei l’onore di tirarla,» — disse il topo.

«Oh, che dice mai? Vuol prendersi tanto disturbo?» — esclamò Hjalmar.

E così andarono in carrozza alla festa di nozze. Prima arrivarono in un lungo andito, sotto all’assito, ch’era alto appena tanto da passarci nel ditalino-carrozza; e tutto l’andito era rischiarato da pezzi di legno imporrito.

«Non è delizioso questo profumo?» — disse il topolino che li tirava: «Tutta la strada fu passata con cotenne e lardo: nè conosco davvero profumo più squisito.»

Giunsero nella gran sala delle cerimonie. A sinistra, stavano tutte le topine, e sussurravano tra loro e sogghignavano, come se si prendessero beffe l’una dell’altra; a destra, stavano tutti i signori topini, arricciandosi i baffi con le zampe davanti; e nel mezzo della sala, dentro ad una nicchia scavata in una crosta di formaggio, si vedevano seduti gli sposi, che si baciavano allegramente dinanzi a tutti, senza un riguardo al mondo; perchè questa era la festa della scritta, ed il matrimonio doveva seguire immediatamente.

Gli invitati continuavano ad affollarsi, sempre più, sempre più, tanto che si stava così pigiati da soffocare; e per giunta, la coppia felice si era messa proprio sulla soglia dell’uscio, sicchè non si poteva più nè entrare nè uscire. Come il corridoio, così pure la sala era stata lucidata con le cotenne di maiale, e in ciò consisteva tutto il banchetto; ma alle frutta fu portato un pisello, sul quale un topo appartenente alla famiglia aveva segnato coi denti il nome degli sposi — vale a dire, la iniziale dei due nomi; non era poco!

Tutti i topi dissero poi che le nozze erano state splendide e la conversazione divertentissima.

Hjalmar tornò a casa nella solita carrozzina-ditale. Era stato, è vero, in una società molto aristocratica, ma gli era toccato strisciare, e farsi piccino piccino, e prendere a prestito la divisa di uno de’ suoi soldatini di stagno…

venerdì

«Tu sapessi quanti e quanti grandi, quanti che non sono più bambini, vorrebbero avermi!» — disse Serralocchi: «Specialmente, poi, tra quelli che hanno fatto qualche cosa di male… Caro follettino, mi dicono: non siamo più capaci di chiuder occhio; stiamo svegli tutta la notte, e ci vediamo davanti le nostre cattive azioni, che si appendono al parato del letto come piccoli diavoletti maligni, e ci spruzzano d’acqua bollente: non vorresti venire a scacciarli, perchè dessimo una volta una buona dormita? — e sospirano profondamente: Guarda, pagheremmo volentieri qualunque somma!… Buona notte, Serralocchi: il danaro è sul davanzale della finestra… Ma io nulla faccio per danaro!» — disse Serralocchi.

«Che faremo questa sera?» — domandò Hjalmar.

«Non so se t’importa di andare ad un’altra festa di nozze, questa sera. È di un genere tutto diverso dalla festa di ieri. La bambola grande di tua sorella quella col viso da uomo, che si chiama Ermanno, prende in moglie la bambola che ha nome Berta. Di più, siccome oggi è il natalizio delle due bambole, i doni non mancheranno.»

«Oh, lo so!» rispose Hjalmar: «Ogni volta che le bambole hanno bisogno di un vestito nuovo, mia sorella usa festeggiare il loro natalizio o celebrare qualche matrimonio. Mi ci ha già invitato cento volte!»

«Sì, ma questo è il centesimoprimo matrimonio, e quando ne son passati cento e uno, non se ne fanno più; per ciò è così splendido. Ma guarda!»

Hjalmar si volse a guardare la tavola. C’era la casina di cartapesta, con tutte le finestre illuminate, e dinanzi ad essa tutti i soldatini di stagno presentavano le armi. Gli sposi sedevano a terra, molto pensierosi, — e ne avevano di che! — e si appoggiavano contro una gamba della tavola. Serralocchi, che aveva indossato il vestito di seta nera della nonna, li sposò. Finita la cerimonia, tutti i mobili intonarono insieme questa bellissima canzone, che la matita aveva scritta apposta per la circostanza, adattandola alla fanfara dei soldatini di stagno:

Vola vola, canzone giuliva,

Agli sposi sull’ali del vento!

Se son muti, è pur muto il contento,

Se son ciechi, è pur cieco l’Amor.

Agli sposi felici un evviva!

Se stan lì duri in un canto,

E la loro una pelle di guanto

Che non freme nè sente dolor.

Poi gli sposi ricevettero una quantità di doni, ma avevano pregato gli amici di risparmiare l’invio di commestibili, perchè erano resoluti a vivere di solo amore.

«Dobbiamo prendere una villa per l’estate o partire per un bel viaggio?» — domandò lo sposo.

Consultarono in proposito la rondine, ch’era viaggiatrice di lungo corso, e la chioccia anziana del cortile, che aveva allevato cinque covate di pulcini. La rondine parlò dei deliziosi climi caldi, dove l’uva pende dalle viti in bei grappoli pesanti e l’aria è tiepida e i monti prendono certe tinte azzurre e purpuree, come nei paesi del Settentrione non se n’ha nemmeno un’idea.

«Ma cavoli neri come quassù, là non se ne trovano!» — osservò la chioccia: «Sono stata una volta in campagna con i miei piccini, per passarvi l’estate. C’era una cava di sabbia, in cui andavamo a passeggiare e dove potevamo razzolare a nostro bell’agio; e avevamo libero ingresso in una cavolaia. Ah, che gradazioni di verde e di violetto avevano quei cavoli! Non so immaginare nulla di più bello.»

«Sì sì, ma ogni cavolo somiglia all’altro!» — disse la rondine: «E qui abbiamo poi certe stagionacce…»

«Oh, ma ci siamo abituati da un pezzo!» — disse la chioccia.

«E poi fa così freddo, qui! Si gela…»

«Clima eccellente per i cavoli, vi dico!» — ribattè la chioccia: «Del resto, anche da noi alle volte fa caldo. Non abbiamo avuto, quattr’anni or sono, cinque settimane di estate, che a mala pena si respirava? E poi, da noi non abbiamo tutti gli animali velenosi che infestano codesti vostri paesi caldi, e non abbiamo ladroni. Chi dice che il nostro non è il più bel paese del mondo, è un furfante, che nemmeno merita di esserci nato.» — E qui la chioccia s’intenerì; poi soggiunse, singhiozzando: «Sì, sì, anch’io ho viaggiato, che cosa credete? Ho fatto dodici miglia e più dentro a una stia: bel sugo che c’è a viaggiare!»

«Sì, la chioccia è una massaia di buon senso!» — disse la bambola Berta: «Non m’importa nulla di viaggiare in montagna, perchè bisogna sempre salire, per poi scendere di nuovo. No, no; sarà meglio trovarci una buona cava di sabbia, e andar a passeggiare nel nostro bravo orto di cavoli.»

E così fu combinato.

sabato

«È sera di novelle, questa?» — domandò Hjalmar, appena Serralocchi l’ebbe messo a dormire.

«Questa sera non abbiamo tempo!» — rispose Serralocchi, e spiegò sopra il letto il più bello de’ suoi ombrelli: «Guarda, più tosto, questi Cinesi!»

Tutto l’ombrello sembrava un grande piatto cinese, con alberelli turchini, e ponti acuminati su cui camminavano certi piccoli Cinesi, che scrollavano il capo, serii serii.

«Per domattina bisogna parare a festa il mondo intero,» — disse Serralocchi, «perchè domani è vacanza; domani è domenica. Andrò sul campanile, a vedere se gli spiritelli della chiesa hanno ripulito bene le campane; perchè domani lo squillo sia proprio argentino. E poi andrò pei campi, a vedere se la brezza ha spolverato per bene l’erbe e le foglie; finalmente, mi toccherà il lavoro più lungo: tirar giù le stelle, e lustrarle una per una. Me le prendo tutte nel grembiale; ma prima bisogna contarle, ed anche i buchi, dove poi bisogna rimetterle, vanno numerati a riscontro, perchè rientrino tutte nel loro incavo: altrimenti, non sarebbero assicúrate ben salde, e ci sarebbero troppe stelle cadenti, perchè verrebbero tutte giù, una dopo l’altra.»

«Dia retta, signor Serralocchi! Lo sa lei,» — disse un vecchio ritratto, che pendeva dalla parete nella cameretta di Hjalmar: «Lo sa lei che io sono il nonno del nonno di Hjalmar? La ringrazio delle novelle che racconta al ragazzo; ma non bisogna confondergli le idee, però. Le stelle non si possono tirar giù e lustrare, intendiamoci! Sono mondi, come questa nostra terra, ed è per l’appunto questo il loro maggior pregio.»

«Grazie, vecchio Trisavolo!» — disse Serralocchi: «Ti ringrazio tanto! Tu sei il capo della famiglia, il vecchio antenato, e sta bene; ma io sono più vecchio di te! Io sono un antico pagano, e i Greci e i Romani mi chiamavano il Dio dei sogni. Ho frequentato le più nobili case, e sono ammesso dovunque, per tua regola, ancora adesso. Guarda tu se non mi saprò regolare tanto su quello che va detto ai grandi, quanto su quello che va detto ai piccini! Libero a te, del resto, di prendere il mio posto e di raccontare quello che più ti piace!» — E Serralocchi prese il suo ombrello e se ne andò pei fatti suoi.

«Oh, quanta furia!» — brontolò il vecchio ritratto: «Al giorno d’oggi, nemmeno si può fare un’osservazione, a quanto pare!»

In quella, Hjalmar si destò.

domenica

«Buona sera!» — disse Serralocchi; e Hjalmar rispose al saluto, ma corse subito a voltare contro il muro il ritratto dell’antenato, perchè non gli saltasse il ticchio di interromperli, come aveva fatto la sera innanzi.

«Ora, devi raccontarmi le novelle; sai, quella dei cinque piselli che vivevano in un baccello, e quella della zampa di gallo che faceva la corte alla zampa di gallina, e quella dell’ago da stuoie, che si dava tante arie perchè si credeva un ago da cucire.»

«Oh, ma anche delle cose belle, quando son troppe, si dice: troppa grazia!» — esclamò Serralocchi. «Sai che io preferisco farti vedere qualche cosa, in vece. Ti presenterò mia sorella. Si chiama anche lei Serralocchi, come me, ma da nessuno va mai più di una volta. E allora prende in groppa del suo cavallo colui ch’ella ha visitato, e lo porta con sè, e gli racconta una novella. Non ne sa che due. Una è così stupendamente bella, che nessuno al mondo può immaginarla; l’altra così orribile e tremenda, che le parole non bastano a ridirla.»

E Serralocchi alzò il piccolo Hjalmar sino alla finestra, dicendo:

«Ora, ti farò vedere mia sorella. Di casato è anch’essa Serralocchi; ma di nome la chiamano Morte. Vedi che non è così terribile come la dipingono nei libri illustrati, dove non è che uno scheletro. No, no; quei ricami, sulla sua veste, son ricami d’argento; vedi che splendida veste nera cosparsa di diamanti? Vedi che magnifico manto di velluto nero ondeggia dietro al suo cavallo? E come galoppa!»

Hjalmar vide come quest’altra Madonna Serralocchi galoppasse in gran furia, prendendo in groppa tanto i giovani quanto i vecchi. Alcuni se ne metteva dinanzi, altri dietro; ma a tutti domandava prima: «Come stiamo col libro dei punti?» — «Bene!» — rispondevano tutti. «Sì, ma lasciate vedere a me!» — ribatteva lei. E allora ciascuno doveva farle vedere il libro; e quelli che ci avevano scritto «Benissimo» o «Molto bene», sedevano sul dinanzi della sella, e udivano la novella più deliziosa; quelli che ci avevano scritto «Male» o «Insufficiente», dovevano star ritti dietro e ascoltare una storia davvero tremenda. Tremavano e piangevano e volevano balzar giù dal cavallo; ma non potevano: pareva che ci avesser messo radici.

«Ma la Morte è una bellissima Madonna Serralocchi!» — disse Hjalmar. «Io non ho paura di lei.»

«E non c’è in fatti da averne paura,» — rispose Serralocchi, «basta stare attenti e portarle un libro con buoni punti…»

Oh, bene! Qui, almeno, c’è qualche cosa da imparare!» — brontolò il ritratto del Trisavolo: «Oggi non ha raccontato più tante frottole come ieri. Anche un’osservazione fatta a tempo, tal volta giova.» E parve più sodisfatto.

* *

Ecco: questa è la mia novella di Serralocchi, e io non ne so altre; ma se questa sera viene, puoi fartene raccontare una da lui.

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