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Il gorgo della campana

Fiaba di Hans Christian Andersen

«Din don, din don!» — si sente risonare dal gorgo della campana, in fondo al piccolo fiume di Odense. Che fiume è questo, tu dici? Ma non v’è bambino, nella vecchia città di Odense, che non lo conosca, perchè esso bagna tutti i giardini dei dintorni, e scorre sotto ai ponti di legno, dalla chiusa sino al molino. Nel fiume crescono le ninfee gialle e le canne dalle bacche brune e vellutate; vi crescono i giunchi scuri, alti e folti, e certi vecchi salici intisichiti, contorti, coi tronchi tutti spaccature, si sporgono sovra il fiume, dalla Palude dei Monaci e dal Prato delle Lavandaie. Di contro alla palude, ci sono giardini e giardini, e tutti differenti gli uni dagli altri; alcuni ben ravviati, con bei fiori e villette che sembrano casine di bambole; altri coltivati soltanto a cavoli; e qua e là i giardini non si vedono più, celati dai folti gruppi dei sambuchi, che stendono le rame lungo la riva e s’incurvano sulle acque correnti, tanto profonde, in certi punti, che il remo non giunge a toccare il fondo. Rimpetto al vecchio monastero, però, è il luogo più profondo, che si chiama il Gorgo della Campana, e lì abita l’antico Spirito delle acque, «l’Uomo del fiume.». Lo Spirito dorme durante il giorno, mentre il sole brilla sulle acque, ma si mostra nelle notti stellate, al lume della luna. È molto molto vecchio: la nonna dice che ne ha sentito parlare (immagina tu quanti anni or sono!) dalla sua nonna: dicono che meni una vita solitaria, e che non abbia alcuno con cui conversare, all’infuori del vecchio campanone della chiesa. Un tempo la campana pendeva dal campanile: ma ora del campanile non rimane più traccia, e nemmeno della chiesa, ch’era detta di Sant’Albano.

«Din don, din don!» — faceva la campana, quando la torre sorgeva ancora là; ed una sera, mentre il sole tramontava, e la campana s’era data lo slancio più forte, ecco che la corda si ruppe, ed essa venne giù volando per l’aria, col lucido bronzo che scintillava nella luce rossa del tramonto.

«Din dan do, din dan do! A letto, a letto vo!» — cantava la campana, e volò giù nel fiume, dov’è più profondo; ed ecco perchè il luogo si chiama il Gorgo della Campana. Ma non trovò riposo nè sonno. Giù, nella dimora dell’Uomo del fiume, essa suona e chiama, così che i rintocchi tal volta arrivano a traverso alle acque, sino alla superficie; e molti vogliono che quei rintocchi presagiscano la morte di alcuno; ma non è vero. Non significano altro, se non che la campana sta parlando con l’Uomo del fiume, il quale ora non è più solo.

E che cosa va raccontando la campana? È tanto vecchia, tanto vecchia… Come ti dicevo, c’era già prima che la nonna della nonna nascesse; e pure, essa non è che una bambina a paragone dell’Uomo del fiume, il quale è un vecchio personaggio posato, un tipo originale, con le sue ghette di pelle d’anguilla e la giacca tutta scaglie, che ha i bottoni formati da ninfee, con la corona di giunchi sul capo e le alghe tra la barba; — e questo, a dir vero, non gli dà un aspetto troppo elegante.

A ripetere tutto quanto la campana racconta, ci vorrebbero giorni ed anni; perchè parla, parla senza posa; spesso e volentieri ripete la stessa storia, tal volta breve, tal volta lunga, secondo la fantasia; racconta dei vecchi tempi, dei tempi difficili e tenebrosi, e dice così:

«In cima alla torre di Sant’Albano, dov’io stava, veniva un monaco. Era giovane e bello, ma sempre chiuso ne’ suoi pensieri. Dalla stretta finestra, presso alla gabbia di noi, campane, guardava giù al fiume, — il letto del quale era largo allora, — e al lago che era dove in oggi è la palude, e, al di là della prateria, al Poggio delle Suore, dove si vedeva il monastero, con le finestre illuminate delle celle. Egli aveva ben conosciuta, un tempo, una delle giovinette ch’era suora al monastero, e al ricordo il cuore gli martellava forte forte. — Din don, din don!»

Sì, così racconta la campana.

«Nella torre salì una volta il servo scemo del Vescovo; e quand’io, campana fusa nel bronzo duro e pesante, prendevo lo slancio, avrei potuto sfracellargli il capo. Ei s’era posto a sedere proprio accosto a me, e si baloccava con due pezzetti di legno, come suonasse il violino, e cantava: — Quello che ignorano tutti i viventi, io qui lo grido forte: posso cantarlo adesso ai quattro venti, il secreto di morte! Niun lo sa, ch’essa è là, niun lo sa!… Non sanno com’è freddo laggiù e umido: laggiù raggio di sole non arriva; non san che i topi se la mangian viva… Non senton — Din don dan… Non senton, non lo san, il secreto di morte; chè la campana suona troppo forte… Din don dan! Din don dan! —

«C’era una volta un Re, di nome Knud, che s’inchinava al Vescovo ed ai monaci, ma siccome imponeva tasse gravosissime e non aveva che parole dure, il popolo afferrò armi e marre e lo cacciò, come fosse un animale selvaggio. Egli si rifugiò nella chiesa, e sbarrò porte e portoni; e la massa del popolo insorto si accampò intorno alla chiesa, ed io lo sentiva rumoreggiare. Le gazze, le cornacchie, persino i corvi si spaventarono alle grida ed al frastuono: volarono dentro alla torre, e poi fuori di nuovo, guardarono giù alla moltitudine, spiarono a traverso alle finestre della chiesa, e gridarono forte quello che videro. Il Re Knud stava dinanzi all’altare e pregava, i fratelli di lui Erik e Benedikt, con le spade sguainate stavano a guardia della sua persona; ma il servo del Re, il falso Blake, tradì il suo signore. Si venne a risapere di fuori d’onde lo si poteva colpire; qualcuno lanciò una pietra per entro ad una finestra, e il Re fu ucciso. La turba selvaggia urlò e gridarono gli stormi di uccelli, ed io gridai con essi, e cantai e squillai — Din don dan! Din don dan!

«La campana della torre sta lassù in cima, vede da lunge, riceve la visita degli uccelli e comprende il loro linguaggio; ed il vento viene a lei sussurrando, spira per ogni finestra, per ogni feritoia della torre, per ogni screpolatura delle muraglie, e il vento sa tutto; l’aria gli dice tutto quanto vive, penetra sino nei polmoni degli uomini, sa tutto quanto si può udire, ogni parola ed ogni sospiro. L’aria lo sa, il vento lo racconta, la campana ne intende il linguaggio e lo diffonde poi per tutto il mondo — Din don dan! Din don dan!

«Ma sentire tutto ciò, tutto sapere, era troppo; non ebbi più forza di ripetere tante e tante cose; mi sentii stanca stanca, e così pesante, che la trave, dalla quale pendevo, si ruppe, ed io volai giù per l’aria scintillante, sino nel gorgo più profondo del fiume, dove abita lo Spirito solitario. A lui narro, ogni giorno, ogni mese, ogni anno, tutto quanto ho sentito, tutto quanto so — Din dan do, din dan do!»

Così si sente risonare in fondo al Gorgo della Campana, nel fiume Odense; così ha raccontato la nonna.

Ma il maestro di scuola dice: «Non v’ha alcuna campana che suoni laggiù, perchè suonare non potrebbe! Ne v’ha alcuno Spirito del fiume laggiù, perchè non ci sono maghi nei fiumi!» Quando tutte le campane delle chiese suonano tanto lietamente, allora egli dice che non sono le campane, ma l’aria propriamente che suona, l’aria che porta in giro i suoni. E questo, dice la nonna, l’ha raccontato anche la campana. In una cosa, almeno, sono dunque d’accordo; e dev’essere perciò cosa certa e sicura. «Bada, bada, sta’ in guardia!»   dicono tutti e due: «Bada a quel che dici, bada a quel che fai!»

L’aria sa tutto! E intorno a noi, è dentro di noi, parla dei nostri pensieri e delle nostre azioni, e più a lungo della campana, laggiù nel profondo Gorgo di Odense; ne parla nella profonda volta del cielo, su su, lontano lontano, sempre sempre, sin che le campane del Regno dei Cieli suonino per noi — Din don dan! Din don dan!

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