Fiaba di Luigi Capuana
C’era una volta un gessaio che aveva parecchi asini magri e sbilenchi, sui quali caricava i sacchi del gesso da portare a questo e a quello; uno poi, il peggio di tutti, spelato, con un moncherino di coda, pieno di guidaleschi, pareva si reggesse su le gambe proprio per miracolo.
Accadde che il Re doveva spedire una staffetta a un Re suo vicino, e voleva la risposta dalla mattina alla sera.
I corrieri reali dissero:
– Maestà, è impossibile. Non c’è cavallo al mondo che possa fare tanto cammino in una giornata, neppure il vento.
Il Re mandò attorno un banditore:
– Chi reca la risposta dalla mattina alla sera avrà tant’oro, quanto può portarne il cavallo con cui ha fatto la corsa.
Si presentò soltanto il gessaio a cavalcioni dell’asino spelato, pieno di guidaleschi e con la coda mozza.
– Maestà, vado io.
– Con quest’asino?
– Con quest’asino.
– E se non porti la risposta dalla mattina alla sera?
– Mi farete tagliare la testa.
Il Re gli consegnò la lettera, e il gessaio partì.
Davanti il palazzo reale e per la via un gran folla si pigiava per vedere lo strano spettacolo. L’asino andava a passi di formica, balenando su le gambe scarne, e con le orecchie ciondoloni. E la gente rideva.
– Gessaio, arriverai fra un anno?
– Gessaio, ti pesava la testa sul collo?
Il gessaio li lasciava dire, e lasciò che l’asino andasse di quel passo fino alla porta della città, senza né gridargli un arri! né dargli un colpo di pungolo.
– Gessaio, arriverai fra un anno?
– Gessaio, ti pesava la testa sul collo?
Passato l’arco della porta dove non c’era gente:
– Avanti, focoso! Avanti, focoso!
L’asino rizza le orecchie, agita il moncherino della coda, e via come un lampo.
Verso il tramonto, il Re s’era affacciato a un balcone per vedere arrivare il gessaio:
– Se non arriva questa sera, gli faccio tagliare la testa.
Davanti il palazzo reale e per la via s’era radunata la stessa folla della mattina, curiosa di vedere come il gessaio se la sarebbe cavata.
A un tratto: Largo! Largo! Ed ecco il gessaio a cavalcioni dell’asino che, a testa bassa, con le orecchie ciondoloni, balenava su le gambe scarne, e pareva sul punto di tirare l’ultimo fiato.
– Maestà, ecco la risposta.
Non c’era che dire; la lettera portava tanto di sigillo del Re ed era scritta tutta di suo pugno.
– Per l’oro, vieni domani.
– Come piace a Vostra Maestà.
E la gente:
– Bravo, gessaio! Evviva l’asino dai guidaleschi! Ora dovresti fargli la coda d’oro, gessaio.
La mattina dopo egli si presentò con l’asino a palazzo.
– Maestà, son venuto pel mio carico d’oro.
– Te ne do il doppio; dammi anche l’asino.
– Maestà, la bestia fa comodo a me; non la vendo.
– Va bene – disse il Re impermalito. – Gli sia dato quel che gli spetta.
Il Ministro credeva che sarebbero bastate due, tre verghette d’oro; pesavano un buon poco.
– Ce ne vuole delle altre.
Mettono sul basto un’altra verga, poi un’altra, poi un’altra; qualunque animale sarebbe rimasto schiacciato da quel gran peso. L’asino, invece, pareva avesse addosso fuscellini non verghe d’oro; più gliene caricavano e più arzillo diventava.
Il Ministro corse dal Re:
– Maestà, non basteranno tutte le verghe d’oro che voi possedete.
Il Re volle vedere, quel portento coi propri occhi. L’asino aveva su la schiena una montagnola e non pareva che fosse il fatto suo.
– Maestà, ce ne vuole ancora.
Aggiungono un’altra verga, e poi un’altra, e poi un’altra; ma l’asino, più gliene caricavano, e più arzillo diventava.
– È anche troppo! – disse il Re stizzito. – Va’ via!
– Il bando prometteva: Avrà tant’oro, quanto può portarne il cavallo con cui ha fatto la corsa.
– Diceva: cavallo, non asino. Se ti do tutto questo, è proprio per grazia· Va’ via!
– Allora non ne voglio niente. Asino mio, rendi l’oro.
L’asino diè uno scossone, e tutte le verghe caddero di qua e di là per terra. Il gessaio montò a cavalcioni su la sua bestia:
– Avanti, focoso!
E l’asino via di corsa, con le orecchie fitte, agitando il moncherino della coda.
Li per lì, il Re rimase sbalordito dell’arroganza del gessaio. Rinvenuto dallo sbalordimento, montò in furore:
– Né verghe d’oro, né asino!
E mandò le guardie alle fornaci del gesso, perché menassero l’animale alle stalle reali.
Le guardie, armate fino ai denti, partono subito e trovano il gessaio che caricava i sacchi del gesso sui suoi somari magri e sbilenchi.
– Sua Maestà vuole l’asino dai guidaleschi.
– Il Re è padrone anche della mia vita. L’asino è lì; menatelo via.
Fanno per accostarsi, e l’asino si rivolta, spara calci alle gambe e alla schiena delle guardie, dà morsi che levano brani di carne.
Il Re, alla vista delle guardie conciate a quel modo, perdé il lume degli occhi:
– Andate a dire al gessaio, se fra un’ora l’asino dai guidaleschi non è nelle stalli reali, ci va della sua vita.
Il gessaio rispose:
– Il Re è padrone; fra un’ora, il mio asino mangerà la biada nelle stalle reali.
E glielo menò lui medesimo.
– Maestà, ci rivedremo da qui a un anno.
– Che intendi dire?
– Niente. Ci rivedremo da qui a un anno.
E, con le mani. in tasca, s’allontanò tranquillamente.
Il Re volle provare da sé la valentìa dell’animale. Ordinò lo conducessero nei giardini reali, bardato bene, con sella e briglia, e vi montò a cavallo:
– Avanti, focoso!
L’asino partì come una saetta, e, in men che non si dice, percorse tre volte tutti i viali.
Quei guidaleschi però facevano schifo al Re.
Quantunque ora mangiasse quanta biada voleva, l’asino non ingrassava punto, e le sue piaghe rimanevano aperte come prima.
Il Re chiamò un maniscalco:
– C’è un rimedio ai guidaleschi?
– Maestà, in otto giorni ve li do belli e sanati.
Infatti, otto giorni dopo, l’asino non si riconosceva più. Era grasso e tondo, col pelo lustro, e dei suoi tanti guidaleschi non si scorgeva nemmeno il segno.
Il Re pensò di fare una passeggiata a cavallo, e ordinò gli si sellasse quell’asino; la corte, tutti a cavallo, doveva precederlo con gran pompa.
Una folla immensa s’accalcava davanti il palazzo reale per godersi lo spettacolo. Ed ecco la sfilata, e dietro a tutti il Re montato su l’asino.
Appena uscito fuori del portone, l’asino non vuole andare né avanti, né indietro.
– Avanti, focoso! Avanti, focoso!
Che avanti focoso! Era come dire al muro. Impuntatosi, col collo teso, l’asino pareva incantato. Invano il Re si sgolava:
– Avanti, focoso! Avanti, focoso!
E accompagnava le parole con colpi di sprone. Niente. All’ultimo, l’asino si mette a ragliare e a far le boccacce, fra le risate di tutto il popolo, con gran dispetto del Re.
A un suo cenno, i servi chi dà all’asino pedate alla pancia, chi legnate sul groppone, chi punture in tutte le parti; ma l’asino, duro; raglia, fa boccacce. E per non restare lì esposto alle risate della gente, il Re dovette scendere da sella e rientrare in palazzo. La bella cavalcata andò a monte.
Figuriamoci la rabbia del Re!
Intanto la fama di quell’asino dai guidaleschi e che correva più del vento, s’era sparsa pel mondo; e un giorno il Re ricevette una lettera del Re suo amico e vicino, che gli chiedeva in grazia di mandarglielo a vedere per pochi giorni. Imbarazzato, glielo spedì, facendogli sapere che l’animale aveva perduto, non si sapeva come né perché, la sua virtù, ed era invece diventato un somaraccio intrattabile.
Quel Re non gli credette, si stimò canzonato ed offeso; e, per vendicarsi, levò su l’esercito e gl’intimò la guerra.
L’altro, levato anche lui l’esercito, gli corse incontro. Appiccò battaglia, con gran sangue, ma fu sbaragliato; a stento poté ricoverarsi sano e salvo dentro le mura della capitale.
Nel salire le scale di palazzo, sente l’asino che raglia.
– Che ha quel somaraccio?
– Raglia da tre giorni, da mattina a sera. Con la guerra, chi poteva badare a governarlo bene? Ed è ridiventato magro e spelato e tutto coperto di guidaleschi qual era una volta. E raglia, raglia, raglia, quasi chiami il suo antico padrone.
Il Re si sovvenne delle parole del gessaio:
– Maestà, ci rivedremo da qui a un anno. – Era giusto un anno da quel giorno. E il disastro della guerra gli era appunto cascato addosso per cagione del somaraccio!
Mandò a chiamare il gessaio.
– Perché dicesti: Maestà, a rivederci da qui a un anno?
– Me l’aveva detto l’asino.
– Parla quell’asino?
– Parla; lo intendo io solo.
– Va’ a sentire che ti dice.
Il gessaio scese in istalla, e l’asino subito:
– Aah! Aah! Aah! Aah! Aah!
– Maestà, dice…
E si fermò.
– Di’ pure! ambasciatore non porta pena.
– Dice: Se il Re mi dà la Reginotta, gli faccio vincere la guerra.
– Proprio così?
– Proprio così.
Il Re rimase perplesso. La Reginotta in isposa a un asino coi guidaleschi e la coda mozza? Poteva mai essere? Quell’asino però non era un asino simile agli altri.
– Qui c’è un mistero! – disse il Re.
E radunò il Consiglio della Corona.
I consiglieri, udita la cosa, si guardarono in viso; non sapevano che consigliare. Soltanto uno ebbe il coraggio di rispondere:
– Maestà, io direi sì. Vinciamo, se sarà vero; poi il tempo dà consiglio.
Il gessaio riferì all’asino la risposta del Re; e l’asino:
– Aah! Aah! Aah!
– Maestà, dice: Prima sposare, poi andare alla guerra.
Messo dalla necessità con le spalle al muro, giacché il nemico era quasi alle porte, il Re acconsentì.
E l’asino fu sposato alla Reginotta, che gettava dagli occhi due fiumi di lagrime, poverina, e voleva piuttosto morire che essere moglie di quel somaraccio schifoso.
– Ora vedrete, Maestà – dice il gessaio. – Chiamate a raccolta i soldati e fate aprire le porte.
Monta su l’asino con la spada sfoderata, e:
– Avanti, focoso!
Al solo raglio, i nemici furono presi di tale paura che non ci vedevano dagli occhi; fuggivano, lasciandosi scannare come pecore; e l’asino, salta di qua, balza di là, a furia di calci ne ammazzò più di migliaia.
– Avanti, focoso!. Soldati, avanti!
Insomma fu un massacro, e ci lasciò la vita anche il Re che aveva intimato la guerra.
– E l’asino, gessaio?
– Maestà, il povero asino è morto in battaglia.
– Tanto meglio! – esclamò la Reginotta, che non le pareva vero.
– Fatelo scorticare, e portatemene la pelle.
All’ordine del Re, partono gli scorticatori e trovano l’asino in mezzo ai morti, con le gambe all’aria,
Cominciarono dallo scorticare le gambe davanti, ed ecco che sotto la pelle compariscono due piedi umani, che muovevano le dita quasi volessero sgranchirli.
Scappano atterriti:
– Maestà, dentro la pelle di quell’asino c’è un uomo vivo. Non abbiamo il coraggio di scorticarlo.
Accorse, il Re, seguito dal Ministri e da tutti i cortigiani; e visto quei piedi di uomo, invece degli scorticatori, fece chiamare i chirurghi di corte perché operassero più delicatamente con l’arte loro. Ma i ferri dei chirurghi non riuscivano a staccare la pelle.
– Maestà, – disse il gessaio – qui ci vuole la mano della Reginotta; e se non fa subito, guai a voi!
Il Re che ora, trattandosi di quell’asino, non dubitava più di nulla, senza por tempo in mezzo, mandò a chiamare la Reginotta.
– Figliuola mia, scorticalo tu; se no, guai a noi!
Aveva ribrezzo e paura; ma sentendo quel: Guai a noi!, la povera Reginotta afferrò con le dita tremanti il lembo di pelle staccato, e nel tenderlo si accorse che si staccava da sé. Allora tirò forte, e fu come se avesse strappato una coperta. Dell’asino non rimaneva più niente, e un bel giovane, riccamente vestito, si rizzava in piedi con tanto di occhi sbalorditi, quasi si destasse da un sonno profondo.
– Chi sei?
Quegli apre la bocca per parlare; ma invece di parole gli scappa un sonoro: Aah! Aah! Aah! un bel raglio accompagnato da gesti, e dietro, fuori dell’abito, gli s’agitava un moncherino di coda, quello dell’asino morto.
Lo condussero a palazzo. Tutti ammiravano il corpo ben conformato e il bellissimo aspetto di quel giovane. Peccato che, in cambio di parlare, ragliasse!
– Che si può fare, gessaio?
– Maestà, il bando prometteva: Avrà tant’oro quanto può portarne il cavallo con cui ha fatto la corsa. E io finora non ho avuto niente.
– Che c’entri tu con costui?
– Il suo destino vuole così. Una Maga lo incantò, mutandolo in asino, per vendicarsi dei parenti di lui che le avevano fatto un’offesa. Venne da me e mi disse: Vuoi comprare quest’asino? Dovresti darmi la moneta d’oro che ti trovi in tasca. Non te ne pentirai; a suo tempo, ti frutterà più del mille per cento. E mi spiegò ogni cosa. Se io non ho il mio oro, non posso rivelare in che modo il Reuccio può riaquistar la parola. E sappiate che costui è proprio di sangue reale.
Il Re condusse il gessaio nella stanza del tesoro.
– Serviti con le tue mani; prendine quanto ne vuoi.
Il gessaio si caricò peggio d’un somaro, portò l’oro a casa sua e ritornò a palazzo.
– Maestà, ora tocca a voi. Dovete, a forza di braccia, strappargli quel moncherino.
Il Re si rimbocca le maniche, afferra con le due mani il moncherino, e tira, e tira, e tira; ma non c’era verso. Sudava, sbuffava, non ne poteva più.
– Forza, Maestà!
Tira, tira, tira; non c’era verso.
– Forza, Maestà!
La Reginotta, i Ministri, tutti i cortigiani che stavano attorno, vedendo gli sforzi del Re, si sforzavano anche loro quasi avessero tutti in mano un moncherino di coda; e gridavano:
– Forza, Maestà!
Il Reuccio, volendo gridare insieme con gli altri: Forza, Maestà! si mise invece a ragliare:
– Aah! Aah! Aah!
Il moncherino si strappa, e il Re, con esso in mano, batte la schiena per terra.
– Grazie, Maestà!
Il Reuccio parlava; l’incanto era finito.
E Finisce pure la fiaba.
A chi non piace, la riporti al ciaba.