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Fiabe di Luigi Capuana Fiabe per bambini

Luccioletta

Fiaba di Luigi Capuana

C’era una volta una bambina orfana di padre e di madre che viveva in casa de’ nonni, vecchi ricchissimi ma quasi sempre malati.

La bambina, che non aveva conosciuto i suoi genitori, non li chiamava nonni ma babbo e mamma, e li serviva con gran cura quantunque non avesse ancora dieci anni.

Non permetteva che una cameriera o un servitore porgessero al malato o alla malata neppure un bicchier di acqua. Voleva far tutto lei. E, la notte, spesso saltava giù dal lettino per domandare premurosamente:

– Nonno, hai bisogno di qualcosa?… Nonna, hai bisogno di nulla?

Ed era felicissima quando il nonno o la nonna rispondevano

– Sì, sì, abbiamo bisogno… di un bel bacio. E ora, torna a letto.

Durante il giorno, i due vecchi le permettevano d’invitare alcune ragazze del vicinato a fare il chiasso con lei; ed era un correre, un inseguirsi, un saltare, ridendo e cantando per i corridoi e gli stanzoni del vecchio palazzo, o per i viali del giardino ombrati da grandi alberi, circondati da piante in fiore.

La bambina non era superba e trattava le compagne da sue uguali, quantunque figlie di povera gente. Non le rimandava mai via a mani vuote, e a ogni mutar di stagione regalava a tutte bei vestitini nuovi.

Non le mancava niente; qualunque suo più strano capriccio era subito soddisfatto; eppure c’erano giornate che ella veniva presa da profonda malinconia. Voleva rimaner sola nella sua camera, con le imposte delle finestre socchiuse, seduta in un angolo; e lei stessa non sapeva perché. Sentiva che le mancava qualche cosa, ma non poteva dir quale.

– Che hai? – le domandava il nonno.

– Che vuoi? – le domandava la nonna.

– Non ho nulla!… Non voglio nulla!… Non so! – E ridendo tutt’a un tratto, e facendo una graziosa smorfietta, soggiungeva: – Voglio la luna! Voglio la luna!

E riprendeva il suo solito umore.

Or accadde che una sera d’estate ella avea voluto scendere nel giardino per godersi un po’ di fresco. Improvvisamente, per la prima volta, vide errare qua e là piccoli punti di luce azzurrognola che pareva si divertissero a inseguirsi tra le piante delle aiuole. Tentò di accostarsi con gran cautela a quelle fiammoline volanti, ma esse si disperdevano quasi, andando di qua e di là, sfuggendo alla caccia della bambina che tentava di afferrarne una con le palme delle mani.

Riuscì la sera dopo, e fu meravigliata di vedere un piccolo insetto scuro, con le ali, che aveva però spenta la sua lanternina, come ella disse sorridendo, e che la riaccese appena poté sfuggirle di mano.

Le pareva di aver scoperto un gran mistero, e ne parlò alla sua amica prediletta pregandola di mantenerle il segreto.

– Ma che mistero! Che segreto! – le rispose questa. – Quelle sono lucciole. Ne ho ammazzate tante l’estate scorsa.

– Perché le hai ammazzate?

– Perché?… Per divertimento.

– Non ti facevano alcun male, poverine!

E da quella sera in poi, ella non diè più loro la caccia. Esse avevano invaso il giardino, e le volavano attorno, e la seguivano lungo i viali, quasi sapessero che la bambina non le avrebbe molestate.

A letto, prima di addormentarsi, la sua testina fantasticava:

-Se fossi una lucciola! Mi divertirei tanto!

E ne fantasticava anche in quelle giornate di profonda malinconia che tornavano ad assalirla di quando in quando.

– Che hai? – le domandava il nonno.

– Che vuoi? – le domandava la nonna.

– Non ho nulla!… Non voglio nulla!… Non so! – Ma non soggiungeva più, ridendo tutt’a un tratto, con graziosa smorfiettina: – Voglio la luna! Voglio la luna!

Non osava dire intanto:

– Vorrei essere una lucciola.

Una mattina ella era uscita per lo stradale di campagna a coglier fiori di prato. Vide venirsi incontro una povera donna, né vecchia, né giovane, ma così coperta di stracci che faceva pietà; senza scarpe, senza calze, senza nulla in testa, e così pallida e magra da sembrare che non si reggesse dalla fame.

– Che avete, buona donna? Siete malata?

– Ho quel che non vorrei!

Parlava a stento, e le tese una mano per l’elemosina.

La bambina aveva soltanto un mazzolino di fiori e glieli diede. Con gran meraviglia vide che quella si mise a piluccarli quasi fossero chicchi di uva, e quando ebbe finito di mangiarseli parve ristorata.

– Grazie, figliuola. Vedete? Sono quasi nuda; a ogni passo che faccio, semino un cencio per via. Dovreste regalarmi quel vestitino; ne avete tanti altri!

– Ma è troppo piccolo per voi.

– Non importa; proviamo.

La bambina si sganciò il vestitino, se lo cavò, e glielo porse, incuriosita.

Ed ecco che mentre quella fa per infilarselo, la stoffa si slarga, si allunga e il vestito le si adatta al corpo come se fosse stato tagliato e cucito per lei.

– Grazie, figliuola! Vedete? Ho i piedi insanguinati. Dovreste regalarmi quelle scarpine; ne avete tante altre!

– Ma il mio piede è così piccolo!…

– Non importa; proviamo.

La bambina si cavò le scarpine. Fece anche di più; si cavò le calzine che le arrivavano al ginocchio, e gliele diede.

Ed ecco che le calzine si slargano, si allungano fino a mezza gamba di quella donna, e le scarpine le si adattano al piede come se il calzolaio gliele avesse lavorate su misura.

– Grazie! Grazie, figliuola!

La bambina la guardava un po’ impaurita. E più la guardava e più la sua paura cresceva. Quella stracciona pallida, magra che, poco avanti, pareva non si reggesse in piedi dalla fame, era diventata rossa in viso, ben vestita, ben calzata, quasi irriconoscibile.

– Chi siete? Non vorrete farmi del male! – disse la bambina con voce tremante.

– Anzi, voglio farti tutto il bene possibile. Chiedi qualunque cosa, e sarai contentata. Mi chiamo Faterella perché sono la più giovane delle Fate. Vuoi un vestitino ricamato di oro e diamanti?

– No!

– Vuoi delle scarpine che non si consumano mai, e crescono come cresce il piede?

– No! No!… Vorrei…

– Parla! Parla!

– Vorrei… di quando in quando… diventar luccioletta, simile a quelle che, la sera, veggo errare nel giardino!

– Così poco? E nient’altro?

– Così poco e nient’altro.

– Prendi quest’anellino. Lo porterai a un dito della mano manca. Quando… vorrai diventare luccioletta, lo infilerai al mignolo della mano dritta e dirai:

– Faterella del mio core,

Luccioletta per due ore!

…Anche per tre» per quattro e più ore, purché all’ultimo minuto sii tornata nel tuo giardino. Sarai avvertita da una lieve puntura un quarto d’ora prima.

– Ah, Faterella cara!

Voleva baciarle la mano, ma si accorse che il corpo di Faterella era formato d’aria: e infatti svaniva come nebbiolina.

Ella però aveva l’anellino a un dito della mano manca, e si trovava ai piedi le scarpine e indosso il vestitino regalati alla creduta mendicante. Non vedeva l’ora che si facesse sera per provare la virtù dell’anello.

Appena i nonni furono andati a letto, ella, zitta zitta, scese in giardino, e:

– Faterella del mio core,

Luccioletta per due ore!

Si sentì diventare piccina piccina, e subito vide accendersi quello che lei chiamava il lanternino. Volò di qua e di là, presa da gioia pazza. Avrebbe voluto essere inseguita da qualcuno, come lei soleva fare con le lucciole; ma nel giardino non c’era nessuno. C’erano soltanto altre lucciole, attratte da quel lume assai più vivo del loro e che variava continuamente di colore, ora rosso, ora verde, ora arancione, ora azzurro. Le andavano dietro, le si affollavano attorno, e lei si divertiva a salire in alto, a volare da un punto all’altro, a nascondersi tra i cespugli, fino al momento in cui sentì la lieve puntura, e provò la sensazione che il suo corpo si distendeva, si allungava, e riprendeva forma umana. Rimise l’anello a un dito della mano sinistra, tornò su, ma era così commossa che non riuscì a prender sonno. Lucciola! Luccioletta! Non le sembrava vero!

Parecchie sere, di seguito, appena i nonni andarono a letto:

– Faterella del mio core,

Luccioletta per due ore!

Le lucciole le andavano dietro, la circondavano, quasi le facessero un corteo come loro Regina; mai il giardino aveva visto tanta folla di lucciole; pareva che si fossero data la posta colà tutte quelle delle campagne attorno.

Una sera, ella spense improvvisamente il suo lanternino, volò oltre il muro di cinta non potuta seguire da nessuna, ed erra di qua, erra di là, si trovò, senza accorgersene, nel giardino del Re.

Il Reuccio passeggiava pei viali a prendere il fresco.

– Oh, che bella lucciola! Oh, che bella lucciola!

Lei non sapeva che quello fosse il Reuccio; lo credette un giovane giardiniere; e per parecchie ore lo stancò, facendoselo correre dietro il suo volo ondulante, cambiando il colore del lanternino ora in verde, ora in rosso, ora in arancione, ora in azzurro; da non sembrare più una lucciola, ma una grossa pietra preziosa cangiante e con le ali.

– Férmati, bella lucciola! Férmati! Non voglio farti del male… Sono il Reuccio!

Ci mancò poco che Luccioletta non svenisse, udendo queste parole. Alzò il volo e si affrettò a fuggire mentre il Reuccio le gridava dietro:

– Ritorna domani notte! Ti attendo! Ritorna!

Ella non aspettò l’avviso della lieve puntura, e corse a rifugiarsi nel suo giardino. Il cuore le batteva forte: le pareva di aver corso un grave pericolo.

Il Reuccio raccontò tutto alla Regina sua madre.

– Avete fatto un bel sogno! – ella gli disse ridendo. – E vi sembra cosa vera.

Per due notti, il Reuccio non vide ricomparire la lucciola desiderata e stava per credere che avesse davvero sognato, quando, la terza sera, egli scorse laggiù, in fondo a un viale, il lumicino errante che ondulava su le erbe e i fiori delle aiuole, cangiando di colore a ogni po’.

– Eccola! Eccola! – E le corse incontro.

Il gioco della prima sera ricominciò ora più festoso, più accalorato. Il Reuccio tentava di afferrarla, e lei si schermiva, avanti, indietro.

– Ah, lucciola cattiva! Se ti lasciassi prendere ti sposerei: saresti Reginotta!

Ella non aspettò l’avviso della lieve puntura, e corse a rifugiarsi nel suo giardino. Il cuore le batteva forte. Reginotta! Reginotta!… Ma sospettava un inganno.

Avrebbe voluto confidare alla nonna: – Nonnina mia!… Questo e questo! – e prender consiglio da lei.

Se ne astenne per paura di esser sgridata. Il segreto però le pesava troppo sul cuore. Prese a parte la sua amica prediletta, e le disse:

– Tu non lo crederai… ma io posso diventare lucciola quando voglio.

– In che modo?

– Così e così!…

E le raccontò l’avventura.

– Fammi provare!

La sciocchina rispose:

– Vieni questa sera. Sarò in giardino; vedrai!

Le mise lei stessa l’anello al mignolo della mano diritta, e le suggerì le parole:

Faterella del mio core,

Luccioletta per due ore!

– Quando sentirai una lieve puntura, torna subito.

Quella errò un momento pel giardino, poi volò in alto e sparì. Luccioletta l’attese invano fino a tardi, e pianse tutta la nottata pensando alla disgrazia che doveva essere accaduta alla sua amica. Attese altri due giorni, ma quella non si faceva viva. Allora, si decise di tornare nel posto dove le era apparsa Faterella e con le lagrime agli occhi cominciò a invocarla:

– Faterella buona! Faterella cara!

Parve che l’aria si condensasse per formare il corpo lieve e quasi fosforescente di lei. Aveva il sorriso negli occhi e su le labbra, sorriso di gentile rimprovero e di consolazione nello stesso tempo.

– So tutto – disse: – la tua amica ti ha tradita. È andata a trovare il Reuccio, gli si è posata su la palma di una mano. Il Reuccio le domandava:

«Chi sei? Chi sei? Come ti chiami?».

«Mi chiamo Luccioletta.»

«Se ti facessi conoscere, ti sposerei; saresti Reginotta»

«Giuratelo!»

«Parola di Reuccio!» Il Reuccio stava per giurare quando ella sentì la puntura e scappò via.

– E il mio anello, Faterella buona?

– Il tuo anello eccolo qui. Gliene ho messo un altro in dito che sarà il suo castigo. Tu però non pensare più al Reuccio, non andare più nel giardino reale… Mi obbedirai?

– Sì, Faterella cara!

Ed essa, sorridendo, svaniva come nebbiolina.

Luccioletta – si faceva chiamare così anche dai nonni, per capriccio, diceva – tornò a casa con la morte nel cuore per il divieto: – Non pensare più al Reuccio!

Ci aveva pensato tanto, giorno e notte, che ora non sapeva non pensarci più.

Fu ripresa da quella profonda malinconia che da qualche tempo non l’aveva turbata; se non che le altre volte durava appena un giorno, e lei stessa non sapeva perché. Sentiva che le mancava qualcosa, ma non poteva dir quale.

Ora no, era invasa da furibonda gelosia contro la sua amica che avrebbe sposato il Reuccio e sarebbe diventata Reginotta.

Se questo fosse avvenuto, ella non avrebbe più avuto nessuna ragione di vivere! E se fosse andata lei invece dell’altra, per avvertire il Reuccio che quella era un’intrusa e che la vera Luccioletta era lei?

Non fece a tempo.

Quella sera, l’altra, che non si era accorta del cambiamento dell’anello, se lo mise al mignolo della mano dritta e invocò:

– Faterella del mio core,

Luccioletta per due ore!

Il Reuccio l’attendeva nel giardino.

Lei cominciò a fare la graziosa, volando pei viali, per le aiuole, provocando il Reuccio perché le ripetesse le parole:

– Se ti farai conoscere, ti sposo: sarai Reginotta. Chi sei? Come ti chiami?

Il Reuccio, invece, le disse:

– Fermati! Sono stanco! Se ti fai conoscere, ti sposo.

– Giuratelo!

– Parola di Reuccio, lo giuro!

Lei sentiva già la lieve puntura, e intanto indugiava. Sapeva di esser bella e piacente, e voleva rivelarsi. Attese l’ultimo minuto e disse:

– Eccomi!

Il Reuccio diè un grido, indietreggiando atterrito. Aveva davanti una vipera che, rizzata su la coda, ondeggiava, vibrando fuori la lingua, e pareva minacciasse di mordere. A quel grido erano accorsi giardinieri, guardie che si misero subito a inseguirla. Corsa folle! La vipera sguisciava tra le erbe, saltava da un viale all’altro, sotto una pioggia di sassi che non riuscivano a colpirla. Finalmente un giovane giardiniere arrivò a schiacciarle, con un colpo di bastone, la testa.

E che si vide? Si vide il corpo della vipera squarciarsi, dilatarsi, e diventare quello di una giovinetta col cranio spaccato! Sussultava, dava gli ultimi tratti, tra lo spavento di tutti i presenti, e soprattutto del Reuccio.

La mattina, saputo il terribile caso, Luccioletta corse dai nonni. Narrò per filo e per segno quel che le era accaduto, dall’incontro di Faterella fino alla confidenza fatta alla sua amica prediletta, e al tradimento di questa, che n’era stata terribilmente punita.

Luccioletta non sapeva come comportarsi. Mostrò l’anello restituitole da Faterella e domandò:

– Che devo fare, babbo? Che mi consigli, mamma?

Mai ella aveva veduta la nonna così scura e così severa in viso.

– Da’ qua quell’anello!

– Che vuoi farne, mamma?

– Lo vedrai!

Appena lo ebbe in mano, la vecchina si rizzò da sedere, aperse la finestra che dava sul fiume e buttò l’anello nell’acqua che là sotto scorreva limacciosa e violenta.

Luccioletta venne meno, e sarebbe cascata per terra se la nonna non fosse stata pronta a prenderla tra le braccia.

Quando rinvenne, era straordinariamente pallida, un po’ stordita, ma tranquilla. Ricordava come un sogno lontano, le lucciole, Faterella, l’anello portentoso e il Reuccio. Disse alla nonna:

– Ho fantasticato troppo, è vero, mamma? Ora tu insegnami a vivere!

E la nonna, sorridendo e accarezzandola, rispose:

– Sei già savia; non hai bisogno di insegnamenti, bambina mia!

Luccioletta, Luccioletta,

Fiaba scritta e fiaba detta.

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