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Risa di fiori

Fiaba di Luigi Capuana

C’era una volta un vecchio giardiniere che si vantava di possedere i più bei fiori del mondo. Magro, bianco di capelli, curvo, passava le sue giornate annaffiando, zappando, ripulendo centinaia di piante.

Terminato il lavoro, si sedeva sotto un albero e si metteva a far colazione alla buona, oggi con pane e cipolla, domani con pane e ricotta, domani l’altro con pane, un po’ di salame e qualche frutto.

E rimaneva là, lunghe ore, a deliziarsi della varietà dei colori, del profumo dei fiori, sorridendo di compiacenza, spesso parlando a questo o quel fiore, quasi fossero persone vive e potessero intenderlo.

Non li chiamava per nome, ma secondo il colore.

Parlava a una rosa.

– Eh, eh, biancolina! Tu penzoli troppo sul gambo! Su, su cara! Domani voglio trovarti a testa alta!

Ed egli non si meravigliava se il giorno dopo trovava la rosa ritta sul gambo. Gli pareva naturale che avesse obbedito.

Appena un fiore stava per sfogliarsi, egli lo coglieva e ne metteva i petali a seccare al sole, su larghe stuoie di canna.

– Che ne fate, compare? – gli domandavano i vicini.

– Servono per le materasse del Reuccio e della Reginotta.

– Quale Reuccio? Quale Reginotta?

– Mio genero e mia nuora.

– Ah! Ah! Sempre allegro, compare!

– Ride bene chi ride l’ultimo…

– Piuttosto, perché non vendete i fiori freschi, o i bulbi, o le semenze?

– Li tengo per me.

– Siete così ricco?

– Più ricco di Sua Maestà: il poco mi basta e anche mi è soverchio.

– Beato voi!

I vicini andavano via ridendo.

Di tanto in tanto, capitava nel giardino qualche signore che avrebbe voluto comprare dei fiori. Uno di essi un giorno, girato pei viali, attorno alle aiuole, sbalordito dalla grande varietà e dalla bellezza dei fiori, disse:

– Ecco: vorrei questo, questo e questo.

E indicava con la mano i fiori più belli e più varii.

– Mi dispiace; ma sono già venduti. Il compratore verrà a prenderli tra poco.

– Allora… datemi quello, quello e quell’altro.

– Mi dispiace ma sono già venduti. La signora che li ha comprati non può tardare di mandare a prenderli.

C’era, in mezzo a un’aiuola, un fiore strano, ritto sul lungo stelo e che sembrava cangiasse di colore a ogni momento.

– Allora… datemi quello li.

– Quello lì non si vende. Nessuno ha quattrini da poter comprarlo.

– Io ne ho anche troppi, per vostra regola.

– Ah! Ah! Ah! Ah!

Si udì una risata sarcastica.

Il compratore si voltò di qua, si voltò di là per scoprire chi avesse avuto l’impertinenza di ridere a quel modo. Non si scorgeva nessuno.

– Chi ha osato di ridere? Sono il Re!

Il giardiniere non si scompose. Solamente si levò il cappellaccio di paglia che aveva in testa, e rispose:

– Quello è il Fiore che ride: Ah! Ah! Ah!

– Vi burlate di me? Sono il Re, vi ripeto!

– Ih! Ih! Ih!

Si udì un’altra risatina di intonazione diversa, di voce femminile.

Il Re, indispettito, si voltò di qua, di là, per scoprire chi avesse avuto la impertinenza di ridere a quel modo. Non si scorgeva nessuno.

– Chi ha osato?

Il giardiniere, senza scomporsi, si cavò nuovamente il cappellaccio di paglia che si era rimesso in testa, e rispose:

– Maestà, è l’altro Fiore che ride: Ih! Ih! Ih! Sono fratello e sorella.

Il Re stette in forse se il giardiniere si burlasse di lui.

– Va bene – poi disse. – Questi fiori, fratello e sorella, mandatemeli a palazzo. Voglio averli nel mio giardino. Vi saranno pagati quanto vorrete.

E andò via senz’altro.

Il Re attese parecchi giorni inutilmente. E una mattina mandò dal giardiniere parecchie guardie con l’ordine di strappare, con tutte le radici, i due fiori che ridevano.

– Ma come possiamo distinguerli?

– Cangiano di colore a ogni momento.

Le guardie entrarono nel giardino.

– Ordine di Sua Maestà, consegnateci le piante dei fiori che ridono!

– Prendetele, se vi riesce. Eccole là.

Il capoguardia penetra nell’aiuola senza badare ai fiori che vi si trovano, stroncandoli, calpestandoli con quei stivaloni a mezza gamba.

Scalza con le dita il terreno, e quando sembra che basti di fare un po’ di forza per strappare una delle piante con tutte le radici, tira, tira, tira, e casca indietro a terra quant’è lungo.

-Ah! Ah! Ah! Ah!

Si era sentito scottare le mani e aveva dovuto lasciare la preda tutt’a un tratto.

Si rizzò col dorso indolenzito. Era rosso dalla rabbia di sentirsi anche canzonare con quella risata.

Si provarono, una dietro l’altra, le quattro guardie che aveva con lui, ma erano cascate su la schiena quanto erano lunghe. -Ah! Ah! Ah!… Ih! Ih! Ih!

Le guardie non vollero credere che quelle risatine provenissero dai fiori. Quando mai si erano visti fiori che ridevano? Frugarono, da un punto all’altro, il giardino; e, all’ultimo, legarono con le mani alla schiena il povero vecchio che accusavano di essersi burlato di loro, e lo trascinarono alla presenza del Re.

La famiglia reale era in attesa dei portentosi Fiori che ridono: e quando il Reuccio e la Reginotta udirono il racconto del capoguardia: – Tira, tira, tira! e tutti cinque, uno appresso all’altro, siamo cascati a gambe all’aria! – scoppiarono a ridere, a battere le mani, raccomandandosi: – Maestà! Maestà! Vogliamo provare anche noi. – Si figuravano che dovesse essere un bel divertimento quel tira, tira, tira, e poi cascare a gambe all’aria tra le risatine dei fiori!

Vado io – disse il Re. – Intanto costui sia chiuso in carcere.

Il giardiniere si lasciò condurre zitto zitto in carcere; ma quando il Re andò al giardino, stupì di trovare là il vecchio che annaffiava i fiori, tranquillamente, come se niente fosse stato.

– Tu qui?

– Maestà, sono qui e sono là. Mandate a vedere se mi sono mosso di carcere. Potevo lasciar seccare i miei fiori? Nessuno ha pensato di annaffiarli. Ed ecco: guardate!

Il Re vide sparire la figura del giardiniere come la fiamma di un lume che vien spento con un soffio. E, intanto, l’annaffiatoio andava attorno da sé versando l’acqua su le piante e sui fiori. La zappetta zappava da sé, qua e là, il terreno delle aiuole, dove occorreva. Il sarchio lavorava da sé perché le barbe pigliassero aria.

– Certamente – pensò il Re – ho da fare con un Mago. E con i Maghi non si scherza.

Pure si provò ad avvicinarsi ai due fiori, fratello e sorella. Lo accolse una doppia risata:

– Ah! Ah! Ah!… Ih! Ih! Ih!

Una risata che non finiva più, e che, si può dire, lo inseguì fino al cancello del giardino.

– E con i Maghi non si scherza!

Se lo ripeté più volte lungo la via, fino al palazzo reale.

Il Reuccio e la Reginotta gli corsero incontro per le scale.

– Maestà, e il Fiore che ride?

– Maestà, e la Flora che ride?

Il Reuccio diceva così per ischerzo, alludendo alla sorella del fiore.

E visto che il Re era andato nelle sue stanze senza rispondere niente, che pensarono la Reginotta e il Reuccio?

– Vogliamo andar noi, di nascosto di tutti?

– Dite bene, Reuccio. Andiamo noi.

Scesero in fretta le scale, uscirono dal portone, con stupore dei soldati di guardia, e si misero a correre per le vie.

– Che è accaduto? Che è accaduto?

La gente se lo domandava e correva dietro ad essi per sapere che cosa era accaduto. Così, quando il Reuccio e la Reginotta arrivarono al cancello del giardino erano già accompagnati da più di un centinaio di persone che si affollarono attorno ad essi lungo i viali, invadendo anche le aiuole.

Guarda qua, guarda là, il Reuccio e la Reginotta non sapevano indovinare quali fossero i due fiori che ridevano. Ne toccavano uno, ne toccavano un altro, dei più belli, dei più odorosi, ma nessuno di essi rideva.

Videro finalmente quello che cangiava di colore a ogni po’, e il Reuccio stese la mano, facendo un finto gesto di strapparlo. Niente!

Volle provare la Reginotta, e subito:

– Ah.- Ah.- Ah.- Ah.-

Una risata deliziosa, di gran piacere, e lo stelo del fiore tremava commosso nella mano che lo teneva stretto.

La Reginotta tirò su, lentamente, dolcemente il gambo e la pianta si staccò dal terreno con le radici che pesavano un po’ mentre il fiore riprendeva a sussultare: – Ah! Ah! – ridendo a scatti, delicatamente.

– Questo dev’essere il fratello – disse la Reginotta.

– E questa sarà la sorella! – esclamò il Reuccio, con aria di scherno, stendendo la mano al fiore là vicino, più modesto di colore e con lo stelo più corto.

– Ih! Ih! Ih! Ih!

Non aveva finito di parlare che s’udì la risatina del fiore, diversa molto da quella dell’altro.

Pareva che questo ridesse con ritrosia, con gentile modestia. Il Reuccio, un po’ deluso, tirò su con stizza il gambo e la piantina si staccò facilmente, con le radici terrose che pure non pesavano molto e il fiore riprendeva a ridere con brevi scatti: – Ih! Ih!

La gente era rimasta sbalordita. Mentre il Reuccio e la Reginotta andavano via, portando con cautela le pianticine sradicate, tutti si precipitavano su le piante attorno credendo di poter trovare altri fiori che ridevano, e dal dispetto del disinganno, ne facevano scempio.

La Reginotta e il Reuccio trapiantarono i loro fiori in due bellissimi vasi, poi pregarono il Re che facesse scarcerare il giardiniere perché li coltivasse lui che era pratico.

– Basta annaffiarli mattina e sera. Più tardi, tra qualche mese, bisognerà allattarli e imboccarli… – disse il vecchio.

La Reginotta collocò il suo fiore nella stanza vicina alla sua camera. La mattina appena levata da letto, e la sera prima di andare a dormire, lo annaffiava con gran cura, salutandolo: -Buon giorno! Buona sera!

E il fiore rispondeva con una bella risatina.

Il Reuccio era invidioso della Reginotta a cui era toccato il più bel fiore. E perciò si curava poco del suo, quantunque lo avesse fatto collocare nella stanza precedente alla sua camera. Ora la sera, ora la mattina si dimenticava di annaffiarlo: lo guardava appena durante la giornata, mentre la Reginotta covava il suo con gli occhi, amorosamente, e si attristava di vedere che i petali già perdevano la freschezza, e languivano.

– Che fai, Fiore, mio bel Fiore?

Il fiore rispondeva con una allegra risatina.

Ma un giorno, la Reginotta, ali ritorno da una passeggiata, trovò i petali cascati e su lo stelo qualcosa che avrebbe dovuto contenere la semenza, e invece era una testolina piccina piccina, con pochi capelli biondi e certi occhietti che guardavano e si richiudevano, quasi non potessero tollerare la luce.

Corse al Reuccio per annunciargli il portento. Egli si era accorto che anche il suo fiore aveva perduto i petali, ma non si era ,curato di accostarsi e di osservarlo.

– Guardate, Reuccio! Una testolina anche qui!

– Com’è brutta!

Il fiore fece: – Ihl Ih! – e parve che singhiozzasse. Accorsero il Re, la Regina e tutti i più alti personaggi di Corte, e non si saziavano di ammirare quelle incredibili meraviglie! Il Reuccio ripeteva:

– Com’è brutta! Com’è brutta!

Ma tutti, per confortarlo e adularlo, gli dicevano:

– Non è vero, Reoccio! È bellina anche lei!

Il Re mandò a chiamare il giardiniere:

– Che significa questo?

– Maestà, significa che se non volete che la famiglia reale perisca, dovete far sposare la Reginotta e il Reuccio col Reuccio e la Reginotta dei Fiori che ridono. Fra un mese finirà il loro incanto.

– E chi mi assicura che siano di sangue reale?

– Uno avrà l’impronta d’una corona sul braccio destro, l’altra l’avrà sul braccio sinistro. Sono figli di regnanti di paesi lontani, Maestà; saranno la buona fortuna della vostra casa! Non ce la lasciate sfuggire!

Ma il Re era troppo superbo dell’antica nobiltà e potenza della sua famiglia, e il Reuccio più di lui…

– Io dare la mia Reginotta a uno che non si sa chi sia né donde venga? Io dare il mio Reuccio a una, brutta per giunta, e che non si sa chi sia né donde venga neppure lei?

La Reginotta andò a buttarsi ai piedi del Re, invocando:

– Grazia, Maestà! Grazia! Ha proprio sul braccio destro l’impronta di una corona.

Il Re, più che mai gonfio di superbia e di vanità, si ostinò a negare il suo consenso. E preso da sdegno andò prima nelle stanze del Reuccio, e con un colpo di sciabola tagliò la testa della piccola Reginotta del Fiore che ride.

Indietreggiò inorridito, vedendo steso a terra un bellissimo corpo di giovinetta, sgusciato fuori improvvisamente dal gambo. E il Reuccio si mise a ridere, a ridere, a ridere e a far salti scomposti: era ammattito! E siccome in quel punto gli si presentava davanti la Reginotta, conducendo per mano un giovane di rara bellezza, uscito allora allora dall’involucro del gambo dell’altro Fiore che ride, il Re voleva inveire contro di lui, ma la Reginotta gli fece scudo del suo petto.

Il Re non osò di ferirla. Buttò la sciabola per terra, e fece un muto gesto furibondo che ordinava:

– Uscite di qua!… Andate via!

La Reginotta e il Reuccio ubbidirono inchinandosi. Ma, mentre scendevano lo scalone tenendosi per mano, si udì un gran rumore di ruote per la piazza del palazzo reale, davanti al portone di questo.

Era arrivata tutt’a un tratto una magnifica carrozza principesca, tirata da quattro bellissimi cavalli; due servitori si tenevano ritti, a capo scoperto, davanti allo sportello.

Il Re, affacciatosi a una finestra, vide quei due da lui scacciati montare in carrozza; vide chiudere dai servitori lo sportello; e, appena essi furono saliti dietro, vide i cavalli trascinar via la carrozza, che scomparve rapidamente.

– Correte!… Raggiungetela! Fatela tornar qui!

Pentitosi immediatamente, il Re gridò questi ordini alle guardie.

Troppo tardi. La carrozza era sparita, e non se ne seppe più nova, per allora.

Il Re e la Regina – che poveretta non aveva commesso nessuna colpa – invecchiarono tristemente. Invecchiò anche il Reuccio, che rideva e saltellava, come il primo giorno in cui era ammattito.

Ma ecco, una mattina, gran rumore per la piazza e davanti al palazzo reale. Era ricomparsa la magnifica carrozza tirata dai quattro focosi cavalli e ne scendevano la Reginotta, il Reuccio e due dei loro bambini.

Il vecchio Re, riconosciutili dalla finestra, avrebbe voluto andar a incontrarli per lo scalone; gli erano mancate le forze.

– Siete venuti per maledirmi, figli miei?

– No, Maestà! – rispose la Reginotta. – Veniamo anzi a chiedervi perdono.

Il Re e la Regina piangevano dalla contentezza e abbracciavano e baciavano i nipotini.

– Ora dovete rimanere qui. Vi cedo il regno. Mio figlio, il Reuccio, è come morto…

Infatti veniva là, ridendo e saltellando e non riconosceva nessuno.

Dovevano abbandonare quel vecchio che aveva scontato amaramente la sua superbia e la sua vanità?

E rimasero.

Larga la foglia, stretta la via,

Dite la vostra che ho detto la mia!

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