Fiaba di Luigi Capuana
C’era una volta un vecchio mercante che si era arricchito coi suoi loschi traffici e aveva messo superbia. Soleva dire: – Col danaro si può comprar tutto, anche la felicità. – Perciò aveva preso in moglie la più bella ragazza del paese, quantunque figlia di un povero contadino. E godeva di sapersi per questo invidiato da tutti.
Gli nacque una bambina. Chi la vedeva, esclamava: – Sarà più bella della mamma! – Il mercante non stava nei panni dalla contentezza e passava intere giornate a covarla con gli occhi in braccio della moglie, o nella culla dove la mettevano a dormire. Una notte egli fu svegliato da strani rumori.
– Hai sentito?
– Ho sentito! – rispose la moglie.
Provarono tutti e due un gran terrore. Poi la bambina cominciò a lamentarsi e a piangere forte. La mamma la tolse dalla culla, la baciò, le porse il seno. La bambina, da lì a poco, riprese sonno; marito e moglie però non chiusero occhio. All’alba, nella camera niente di insolito; la piccina, vispa e sorridente non sembrava di aver sofferto.
Ma la notte dopo, daccapo. – Hai sentito? – Ho sentito! Provarono tutti e due un gran terrore. La bambina tornò a lamentarsi e a piangere forte. La mamma fece come nella notte precedente, e la sua creatura, da lì a poco, si addormentò; marito e moglie però non chiusero occhio. E, all’alba, nella camera non videro niente d’insolito: la piccina, vispa e sorridente, non sembrava di aver sofferto.
La notte seguente, la misero a dormire nel letto in mezzo a loro; ma, a ora inoltrata, daccapo. – Hai sentito? – Ho sentito!
La mamma, atterrita più del solito, prese la figliolina tra le braccia, quasi volesse difenderla da chi tentava di farle del male e si aggirava attorno al letto. La bambina tornò a lamentarsi, a piangere forte; ma, da lì a poco, si riaddormentò; marito e moglie però non chiusero occhio.
Da quella notte in poi non udirono più niente.
La piccina cresceva, bellissima, con immensa gioia dei genitori. Per chiamarla con un nome più bello di quello datole alla nascita, essi la chiamarono Splendore. Aveva già quasi due anni; ma non riusciva a pronunziare una sola sillaba; né mostrava di scotersi se il babbo o la mamma le rivolgevano la parola. Vedendo agitare le loro labbra, guardava fisso, rideva e mugolava qualcosa che non aveva nessun significato. E, quel ch’era peggio, non solo essa non parlava, ma pareva che fosse anche sorda, perché quando la chiamavano a nome o battevano le mani per farla voltare, Splendore rimaneva immobile, indifferente, o guardava con espressione di stupidità quelle mani mosse l’una contro l’altra e delle quali, evidentemente, non percepiva il rumore.
– Muta e sorda!
Marito e moglie non sapevano darsene pace.
La bambina aveva certi occhi azzurri grandi così, limpidissimi, come quelli della madre, ma senza qualcosa che rivelasse una scintilla d’intelligenza. Si accendevano, luccicavano un po’ se vedevano roba da mangiare; e quando essa aveva divorato questo o quel cibo, come una bestiola, non si mostrava mai sazia. Se glielo avessero permesso, avrebbe continuato senza smettere un momento.
Poi andava a sdraiarsi per terra, in un canto, e vi restava lunghe ore, mezza addormentata. E quando non mangiava o non dormicchiava andava attorno per le stanze, divertendosi a guardare quel che facevano le persone di casa, o tentando d’imitarle. La mamma cuciva? E lei voleva un ago col refe infilato e un pezzo di stoffa, per dare punti a casaccio, in fretta in fretta. La serva spazzava, spolverava? E lei voleva una granata per menarla su e giù pel pavimento, a dritta e a manca; o un cencio per strofinarlo sui mobili e anche sui muri senza sapere perché. E guai se la mamma non la contentava, dandole l’ago col refe infilato; o la serva il cencio o la granata per adoprarli a modo suo! Si metteva a strillare, a piangere, a pestare i piedi, e bisognava fare quel che voleva lei. Al contrario, se vedeva qualcosa o qualche persona che le parevano buffi, scoppiava a ridere a ridere, contorcendosi, fino ad averne le lacrime agli occhi.
E gli strilli, i pianti, il pestare i piedi, come il ridere, ridere senza nessuna ragione, erano tanti colpi di coltello al cuore dei genitori; i quali non sapevano che farsi della ricchezza, visto che non bastava a procurar loro un po’ di felicità. Il mercante, che si era servito di ogni mezzo per arricchire, più non osava di ripetere: – Col danaro si può comprar tutto, anche la felicità!
Qualche volta però tornava a lusingarsi. Gli avevano consigliato:
– Andate dallo stregone Tappa e Stappa. Opra miracoli coi suoi unguenti. Ai poveri li dà gratis, ma dai ricchi vuol essere pagato e come!
– Gli darei metà di quel che posseggo, se mi guarisse la figliuola.
E andò.
Entrando nella grotta dello Stregone, si sentì venir meno dalla paura. Grossi pipistrelli volavano, come impazziti, sotto la volta; rospi saltellavano qua e là pel pavimento: un grosso serpente strisciava, si rizzava, ondulando su la coda, vibrando la lingua aguzza che pareva di fuoco; un gattaccio nero faceva le fusa su le ceneri del focolare; una civetta, appollaiata su la spalla dello Stregone, apriva e chiudeva gli occhi che, nella penombra della grotta, scintillavano come diamanti.
Lo Stregone era occupato ad appoggiare le mani a questa o a quella parete per fame scaturire cascatelle d’acqua azzurra o rosea che scendevano giù con dolcissimi suoni, come di campanellini d’oro e d’argento. Tutte quelle bestie andavano a dissetarsi chi con l’acqua rosea, chi con l’azzurra: poi lo Stregone tornava ad appoggiare le mani alle pareti, e le cascatelle si arrestavano come per incanto.
Per questo lo chiamavano Tappa e Stappa. Il mercante si fece coraggio e stava per parlare; lo Stregone lo prevenne:
– So già perché siete venuto. Dovrò consultare i miei protettori: Rospo, su! Serpente, qua! Dite la verità… Ma!… Ma!…
Il mercante capì e disse:
Ho portato questo pugno di grano…
Erano monete d’oro; bisognava però dire così; lo avevano avvisato.
Lo stregone Tappa e Stappa non rispose neppure grazie. Chiuse gli occhi, seduto su una panca, stirò gambe e braccia, e parve addormentarsi.
Poco dopo si destò sbadigliando; si rizzò a sedere, prese da un barattolo quanto un cece di certo unguento nero ma profumatissimo, lo involtò in un pezzettino di carta e lo consegnò al mercante:
– Strofinatelo forte dietro gli orecchi della bambina durante il sonno; ne vedrete gli effetti. Però… Però…E non volle dir altro.
La mattina appresso, svegliandosi, Splendore diè un grido e balzò giù dal letto, quasi folle dalla gioia! Udiva il canto degli uccelli tra gli alberi dell’orto dietro la casa, e non si saziava di star ad ascoltarlo. Le parole del padre e della madre che ella non capiva non le producevano tanta delizia quanto quei cinguettii, quei gorgheggi. Con cenni delle mani, con gridi da muta chiamava gli uccellini, e si spazientiva non vedendoli accorrere. Perciò il padre le regalò canarini, cardellini, calandrelle, merli, da tener liberi in una stanza.
In poco tempo, Splendore li aveva addomesticati, e se li conduceva dietro, legati per una zampina con un filo di seta. Cardellini e canarini le volavano attorno, le posavano su la testa, su le spalle, andavano a beccare il cibo nel palmo della sua mano; calandrelle e merli contendevano il posto ai canarini e ai cardellini. Ed era per tutta la casa un assordante rumore di canti, un incessante frullìo di ali.
Alla fine, il mercante si stancò di vedere ogni stanza ingombra di quegli uccelli, e una mattina li fece volar via, tutti, mentre la figliuola dormiva.
Egli era tornato più volte dallo stregone Tappa e Stappa.
– Le avete dato l’udito, datele anche la parola. Ecco qui un altro pugno di grano!
– Grazie! Grazie! Riprendetevelo; per la parola, occorre un altro più potente di me.
– Chi può essere quest’altro?
– Il mago Ridi e Ciarla.
– Dove abita? Ci vuole un pugno di grano anche per lui?
– Ce ne vuole il doppio, e non bisogna dire un pugno, ma un chicco di grano. Verrà tra poco da me, per qualche giorno; vi farò avvisare. Non vi sfugga, ve’, di bocca… mago Ridi e Ciarla parlando con lui!
Ed ora che, dopo la perdita degli uccellini, Splendore se ne stava chiusa in camera, allo scuro, e rifiutava fin da mangiare, i suoi genitori vivevano in grandissima ansietà. Questo mago Ridi e Ciarla non arrivava mai?Arrivò finalmente!
– Buon Mago, buon Mago, date la parola alla mia figliuola!
– Chi parla falla!
– Non importa. Buon Mago, date la parola alla mia bambina!
– Il silenzio è d’oro, e la parola è… di ferro!
– Non importa. Buon Mago date la parola alla mia figliuola! Ecco qui – e scusate – un piccolissimo chicco di grano!
– Vado e torno subito.
Il Mago era sparito. Riapparendo dopo parecchi minuti, disse:
– È fatta!… Ma, forse, certi sordi dovrebbero restar sordi; e certi muti, muti… Mi darete ragione.
Il mercante non capì, e corse, tutto contento, a casa sua. Era vero: Splendore parlava!
Dapprincipio fu una festa; non si chetava un momento:
– Babbo, questo! … Mamma, quello! …
E siccome era sciocchina, non diceva altro che sciocchezze. Domandava:
– Perché l’acqua è bianca e il vino è rosso?
– Perché l’acqua è femmina e il vino è maschio…- le rispondeva il babbo, ridendo.
– Dove va la luna quando corre dietro le nuvole?
– Torna a casa perché ha freddo.
– E come può correre se non ha gambe?
– Si fa ruzzolare.
– Chi la ruzzola?… È una focaccia la luna? Ne vorrei un pezzetto.
– Dev’essere buona, se – guarda, babbo – se la sono mangiata a metà!
E seguitava, per ore e ore, a dire sciocchezze peggiori di queste.
Il guaio era quando si mettevano a parlare mamma e figliuola. Pareva che stessero a leticare. Splendore alzava la voce perché la sua mamma, dopo l’ultima malattia, ci sentiva pochino: e la mamma, credendo che tutti avessero l’orecchio duro come lei, gridava più della figlia. Con tutto questo spessissimo non arrivavano ad intendersi.
– Mammina, che bella giornata è oggi!
– Che mai dici, figlia mia! Una passeggiata sui poggi?
– Ho detto: che bella giornata!
– Lo so: ci vuole una granata. La faccio comprare.
– Ho detto che bella giornata! – insisteva Splendore gridando più forte.
– Ho udito. Non sono più tanto sorda!
La sciocchina aveva sempre qualcosa da dire alla mamma, o questa a lei, ed erano strilli da tutt’e due le parti che facevano scappar di casa il povero mercante.
Ormai pareva che Splendore non riuscisse più a parlare col tono di voce ordinario. Quando non parlava, rideva; ed erano risate sonore, vibranti, provocate da futilissime ragioni, e che, a poco a poco, si comunicavano a tutte le persone di casa, irresistibilmente…
– Ah!… Ah!… Ah!… – cominciava la mamma.
– Ah!… Ah!…- seguiva il babbo.
– Ah!… Ah!… Ah!… – prorompevano le fantesche costrette a smettere di far le faccende.
E le comari del vicinato accorrevano, incuriosite, e tutte, una dietro l’altra, senza sapere di che, scoppiavano a ridere anch’esse…
– Ah!… Ah!… Ah!… – tenendosi i fianchi, mezze soffocate dalla tosse, sfinite.
Non parlava? Non rideva? Ed ecco che, senza nessun motivo o per una cosa da nulla, Splendore dava in un pianto dirotto, con fortissimi strilli, da commuovere persino i sassi:
– Iih! Iih! Iih!
– Che hai, sciocchina, che hai? Perché?
E a poco a poco, il pianto si comunicava a tutte le persone di casa, irrefrenabilmente:- Iih! Iih! Iih!
Padre, madre, fantesche, comari del vicinato, tutti piangevano, si struggevano in lacrime, come se fosse accaduta una grande disgrazia.
Il mercante non ne poteva più, e tornò prima dallo stregone Tappa e Stappa, poi dal mago Ridi e Ciarla.
– Ecco qui… due pugni di grano! Riducete sorda di nuovo la mia figliuola! Era meglio prima, meglio assai!
– Questo suo è un udito… rimediato; lo riprendo subito. L’udito di vostra figlia è in mano di una Fata che venne a toglierlo di notte, quand’era bambina.
– Ah! – fece il mercante, ricordando.
– Per colpa vostra! – soggiunse lo Stregone.
– Che colpa?
– Ve lo dirà il mago Ridi e Ciarla.
– Mago, buon Mago, ecco – scusate – due piccolissimi chicchi di grano. Riducete muta di nuovo la mia figliuola. Era meglio prima, meglio assai!
– Quella di Splendore è parola… rimediata. La sua vera parola è in mano di una Fata che venne a toglierla di notte, quand’era bambina.
– Ah! – fece il mercante, ricordando.
– Per colpa vostra! – soggiunse il Mago.
– Che colpa?
– Per arricchire avete fatto di ogni erba fascio. Avete condannato a morire di fatica e di fame schiavi e dipendenti che lavoravano per voi. Vi siete appropriato il danaro degli altri, la roba degli altri. Centinaia di vecchi, di donne, di bambini hanno sofferto e pianto per la durezza del vostro cuore!
– Ho fatto quel che fanno tanti altri. Ognuno ha il suo castigo. Non dubitate. Ma quella mia creatura che c’entra?
– L’albero pecca e la rama riceve. Vado e torno subito.
Il mago Ridi e Ciarla era sparito. Quando ricomparve, dopo alcuni minuti, disse, al solito:
– È fatta!… Oprate un po’ di bene, mercante! – soggiunse – E pensate che non è vero che col danaro – specialmente se mal guadagnato – si compra tutto!
Il mercante alzò le spalle andando via, e fu contento di ritrovare Splendore sorda e muta come una volta e sciocchina quasi più di prima. Gli parve che la pace fosse rientrata nella sua casa, e cercava un modo di provare al mago Ridi e Ciarla che col danaro si può comprar tutto-
Accadde in quel giorno che il Re mandasse attorno dei banditori:
– Sua Maestà vuol sposare una bella ragazza, ma che sia sorda, muta e sciocca. Padri e madri siete avvisati!
E le trombe dei banditori squillavano: Peeph! Peeph!
– Nostra figlia sarà Regina! – disse il mercante alla moglie. · – Hai sentito? Il Re vuol sposare una bella ragazza, sorda, muta e sciocca. Chi sa perché?
– Capriccio di Re… – gli rispose la moglie.
– Nostra figlia sarà Regina! Chi più bella, più sorda, più muta e più sciocca di lei?
Parecchie ragazze vennero presentate a Sua Maestà. Chi era sciocca e muta, ma non sorda; chi era sorda e sciocca, ma non muta. Pareva che il bando fosse fatto a posta per Splendore!
Il mercante fece vestire la figlia con ricchissimi abiti e andò a presentarla a Corte.
– Più sorda, più muta, più sciocca di questa, Vostra Maestà, non può trovarla!
C’erano nella gran sala, attorno al Re, insieme coi Ministri e gli alti dignitari, tre bellissime signore con abiti tramati di oro e di argento; e tutti, a cominciare dal Re, le trattavano con grandi onori. Una si accostò a Splendore e le soffiò negli orecchi. Splendore trasalì. La seconda le posò le mani su la bocca e ve le tenne per qualche istante. Splendore trasalì. La terza la baciò tre volte su la fronte. Splendore trasalì. E tutt’a un tratto, parve trasfigurata. S’inchinò alle tre signore e portò alle labbra un lembo delle loro vesti; s’inchinò davanti a Sua Maestà, e con dolcissima voce gli disse:
– Sono l’umile vostra serva, Maestà.
Le tre bellissime dame erano le tre Fate venute a restituire a Splendore la parola, l’udito e l’intelligenza che le avevano tolti quando era bambina.
Il mercante provò di nuovo il gran terrore di quelle notti; respirava a stento.
– Chi credevate d’ingannare? – gli disse il Re con voce irritata.
Il mercante non sapeva che rispondere. Poi cominciò a balbettare:
– Perdono, Maestà!… darò tutto il mio, mal acquistato, ai più poveri del regno… Andrò attorno chiedendo l’elemosina… Ma io, Maestà, non volevo ingannarvi: mia figlia era sorda, muta e sciocca davvero.
Splendore si fece avanti, gettandosi ai piedi del Re:
– Grazia, Maestà! Grazia!
Le tre Fate si accostarono a Splendore.
– Tuo padre, per egoismo – le disse la prima – ti volle di nuovo muta; lo perdoni?
– Sì, sì! – rispose Splendore.
– E ti volle anche sorda! – aggiunse la seconda Fata. – Lo perdoni?
– Sì, sì! – rispose Splendore.
– E pure sciocca ti rivolle! – le disse la terza. – Lo perdoni?
– Sì, sì!
– Ah, quanto sei buona! Perdonatelo anche voi, Maestà! – esclamarono, in coro, le Fate rivolgendosi al Re. – La regina Splendore sarà la fortuna del vostro regno!
Il Re rimase un momento soprappensiero, poi disse al mercante:
– Voi, uomo senza coscienza, per un anno, un mese e un giorno dovrete vivere di elemosina, lontano di qui. E voi, Splendore, sarete davvero la fortuna e la gioia del mio regno! Non piangete, intanto, per il castigo che dò a vostro padre; me ne ringrazierete tutti e due tra un anno, un mese e un giorno.
Poi, rivolto alle Fate, soggiunse:
– Come dice la vecchia canzone?
Le tre Fate batterono le mani, e mentre a quel richiamo la sala si popolava di canarini, di cardellini, di calandrelle e di merli, esse presero a cantare soavissimamente:
– Vi dirò la buona nova:
Chi fa bene… bene trova,
Chi fa male sale sale…
Ma poi ruzzola le scale!
Pareva che, insieme col canto, si dileguassero lentamente per l’aria le loro forme corporee. Infatti, al morire dell’ultima nota, delle tre bellissime figure rimanevano soltanto i lunghi vezzi di perle che esse portavano attorno al collo.
Splendore se li trovò sul grembo, tra le mani, fra i capelli. Le perle erano splendide e grosse, maravigliose. Il Re le disse:
– È l’ultimo dono che han voluto farti fata Dolcezza, fata Benigna, fata Pietà. Che daresti loro in cambio, se tornassero? Ma non torneranno, le buone Fate! Fanno il bene e spariscono. Non ripassano mai dallo stesso posto! Come dice la vecchia canzone? Non bisogna dimenticarla; ci porterebbe sfortuna…
E Splendore sorse in piedi e cominciò a cantare:
– Vi dirò la buona nova:
Chi fa bene… bene trova,
Chi fa male sale sale…
Ma poi ruzzola le scale!
Terminato di cantare, ella guardò attorno: il mercante era andato via, a iniziare la sua penitenza. Splendore si sentì salire le lacrime agli occhi.
– E la mia cara mamma? – disse al Re, esitando.
– Tua madre verrà ad abitare con noi, nel palazzo reale.
Al Re pareva che in quel momento la sua sposa fosse diventata più bella e più buona delle tre Fate.
E finché visse non dové mai pentirsi di avere sposato Splendore.